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Liberare i pescatori da Bengasi non era un risultato scontato. Scrive Khalid Chaouki

Siamo tutti felici che i pescatori italiani siano tornati tra le braccia delle loro famiglie, ma come grande Paese, non dovremmo mai dimenticare che un governo, di qualsiasi colore politico sia, quando adempie ai suoi compiti istituzionali come il salvataggio o la liberazione di un connazionale deve essere supportato da tutta la comunità nazionale

Va bene che in Italia siamo bravissimi ad autodemolirci e a sminuire molte delle nostre capacità e potenzialità, ma non al punto di non essere in grado di gioire fino in fondo, ringraziare e riconoscere l’operato di chi ha contribuito a liberare i 18 pescatori fermati da oltre tre mesi a Bengasi. Chi si lancia, anche in queste ore, in critiche sull’operato del governo italiano o immaginando addirittura azioni alternative nelle settimane passate che avrebbero dovuto intraprendere addirittura le nostre forze militari nel Mediterraneo, o è in malafede o non si rende bene conto della complessità che si muove intorno al quadrante libico.

Liberare i nostri pescatori è stato un risultato per nulla scontato in una fase dove, è bene ricordarlo, il nostro interlocutore era Khalifa Haftar, un capo militare di un entità che ufficialmente l’Italia non riconosce, ma con cui per fortuna i canali di dialogo non ufficiali sono rimasti sempre aperti. Questo elemento sta a significare che si è trattato di una trattativa che inevitabilmente non faceva parte delle ordinarie modalità di dialogo tra Istituzioni, ma è stata portata avanti su terreni informali e con molteplici tentativi e triangolazioni evitando buchi nell’acqua o ricatti di qualsiasi genere.

Il secondo elemento di complessità è stato nella condizione attuale in Libia dove vige la classica “pace” prima di una possibile tempesta. Un dialogo importante tra “alcune” leadership di Tripoli e Bengasi, e il silenzio sospetto di “altre” forze in campo e soprattutto degli sponsor regionali delle fazioni in lotta tra loro. Questo quadro di profonda instabilità e frammentazione del quadro socio-politico libico certamente non ha favorito una soluzione rapida come tanti hanno sperato, a partire dalle famiglie dei pescatori a cui abbiamo espresso tutti solidarietà.

Il terzo elemento che a mio modesto avviso ha reso ancora più difficile l’arrivo ad una soluzione in tempi rapidi è stata la confusione mediatica intorno a questo caso e il messaggio implicito di poca fiducia nelle nostre Istituzioni, che inevitabilmente ha indebolito la forza dell’azione del governo nel dialogo con Bengasi.

In alcuni momenti purtroppo della storia recente e come in questo caso, abbiamo assistito alla miscela esplosiva autodistruttive tra la mancata consapevolezza di quello che la parola Italia ancora uscita in tante parti del mondo insieme al provincialismo di chi pensa che una frase buttata in un talk italiano non sia quasi contemporaneamente registrata, tradotta e fatta recapitare ai nostri interlocutori aldilà del Mediterraneo.

In parole povere, dipingere la nostra controparte in questa durissima partita come dei “criminali che hanno rapito i nostri poveri pescatori” è un approccio che certamente non ha aiutato chi ha dovuto sobbarcarsi l’onere di dialogare con Haftar e i suoi emissari. Siamo tutti felici che i pescatori italiani siano tornati tra le braccia delle loro famiglie, ma come grande Paese, non dovremmo mai dimenticare che un governo, di qualsiasi colore politico sia, quando adempie ai suoi compiti istituzionali come il salvataggio o la liberazione di un connazionale deve essere supportato da tutta la comunità nazionale. Un compito, che come ha dichiarato lo stesso ministro degli Esteri Luigi Di Maio, è stato assolto grazie al prezioso lavoro dell’Aise e della Farnesina. Due Istituzioni che meritano il nostro plauso e ci rendono orgogliosi di essere italiani.



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