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Made in Italy, il futuro passa dalla trasformazione digitale delle imprese

Di Michele Masulli
Made in Italy

In virtù della rivoluzione digitale che attraversa il mondo dell’impresa, si apre lo spazio per compiere un balzo in avanti. Le tecnologie ICT, spesso a costi contenuti, consentono importanti recuperi di efficienza, sono volano di innovazione, danno stimolo alla competitività aziendale. Una finestra di opportunità che non può essere sprecata. L’intervento di Michele Masulli, research fellow dell’Istituto per la Competitività (I-Com)

Il sistema italiano di imprese soffre di limiti noti: tra questi, un rapporto poco maturo con il mercato dei capitali, modelli di governance che faticano a distaccarsi dall’impostazione familiare, una produttività dei fattori (la rinomata total factor productivity degli economisti) stagnante. Su tutti, però, ai fini dello sviluppo del Made in Italy pesa di più il sottodimensionamento – patrimoniale, organizzativo, tecnologico, di capitale umano – rispetto alle esigenze dei mercati internazionali. Il dibattito degli esperti – dall’orgoglio nei confronti del cosiddetto “Calabrone Italia” che, forte del suo tessuto di piccole e medie aziende e di un sapere artigiano che riusciva a farsi impresa, vinceva le leggi delle gravità e si affermava come quinto Paese industriale al mondo – con il tempo ha gradualmente piegato verso la sottolineatura delle debolezze strutturali di un sistema produttivo così composto.

Eppure, in virtù della rivoluzione digitale che attraversa il mondo dell’impresa, si apre lo spazio per compiere un balzo in avanti. Le tecnologie ICT, spesso a costi contenuti, consentono importanti recuperi di efficienza, sono volano di innovazione, danno stimolo alla competitività aziendale. Soprattutto, sono componente irrinunciabile di un nuovo paradigma, fatto di pervasività dell’automazione, crescita esponenziale della capacità di calcolo e di elaborazione dei dati, integrazione tra dispositivi fisici e digitali, che già oggi segna la parte più avanzata della manifattura. Si tratta, pertanto, di una “window of opportunity” che non può essere sprecata.

Tra le diverse tecnologie, risulta essenziale irrobustire i canali digitali di vendita, soprattutto quelli diretti verso i Paesi esteri. In questo ambito, si consuma un divario rilevante per un’economia come l’Italia, per la quale l’esportazione di beni costituisce più di un quarto del Prodotto interno lordo. La quota dell’e-commerce nelle esportazioni business to consumer si attesta intorno al 7%, di cui i due terzi circa generati dal settore della moda (seguono l’alimentare e il mobile e il design). L’Italia, inoltre, mostra un’incidenza sull’export online mondiale pari all’incirca all’1%, un terzo se comparata alla percentuale del nostro Paese nel commercio tradizionale. Più in generale, il Made in Italy si pone generalmente sotto la media europea e a grande distanza dagli Stati Ue best-performing per tutti i principali indicatori relativi all’adozione di tecnologie digitali di vendita (i dati emergono dallo studio dal titolo “La trasformazione digitale per il Made in Italy. Sfide e scenari in tempi di crisi” curato dall’Istituto per la Competitività, I-Com e presentato oggi nel corso di un webinar organizzato in collaborazione con Amazon Italia).

Se da un lato il ritardo è parte di una lentezza complessiva del processo di digitalizzazione delle imprese italiane rispetto ai maggiori partner europei, dall’altro risulta fondamentale investire sull’e-commerce, ancor più consapevoli che probabilmente la pandemia Covid-19 ha comportato una modifica permanente delle abitudini di consumo. Superati i colli di bottiglia lungo le catene di produzione e distribuzione e le problematiche di immagazzinamento e logistica che hanno segnato i mesi di lockdown, attenuatasi la pressione al rialzo sperimentata in particolare da alcuni settori produttivi (dalla grande distribuzione al food delivery, dal farmaceutico all’elettronica dei dispositivi per lo smart working), è lecito attendersi che la tendenza all’acquisto online sarà più marcata, una volta che la fase emergenziale sarà terminata, rispetto all’epoca pre-Covid.

I dati più recenti sul dinamismo dell’export digitale e non solo sono lì a testimoniarlo ed esprimono segnali di fiducia sulle capacità delle imprese italiane di intercettare la fase di ripresa del ciclo economico globale. Sono soprattutto i settori tradizionali del Made in Italy (qui il commento di Paolo Ghezzi, direttore generale InfoCamere) a trovare nelle vetrine online un mercato di sbocco di primo piano. Dall’industria tessile all’agroalimentare, dalla gioielleria all’arredamento alle calzature, le piccole imprese italiane, che già oggi vantano una quota sul valore complessivo dell’export superiore rispetto alle omologhe tedesche, francesi e spagnole, possono senz’altro individuare nel commercio elettronico un ulteriore strumento di competitività e di tutela rispetto all’esposizione alla concorrenza internazionale, in questi comparti sempre più agguerrita.

Si rivelano necessari, tuttavia, interventi molteplici, a partire dal sostegno alla digitalizzazione e alla connettività delle imprese attraverso incentivi alla dotazione di software, hardware e servizi digitali. Vanno, inoltre, formati profili professionali utili a supportare sia l’integrazione delle tecnologie digitali nelle varie fasi dell’attività aziendale sia la propensione all’export, quali innovation ed export manager, di cui va sostenuta l’assunzione. Bisogna favorire la collaborazione tra i marketplace e le PMI, che consentirebbe alle seconde di sfruttare l’architettura di business delle grandi piattaforme, non solo per poter lanciare i propri prodotti sui mercati stranieri, ma anche per acquisire l’expertise adeguata al fine di raggiungere una propria autonomia sui canali del commercio elettronico.

Anche i segmenti più tradizionali, e più in difficoltà, quali il commercio al dettaglio, vanno incoraggiati a prendere parte al processo di trasformazione digitale, definendo una propria presenza online, investendo in marketing digitale e logistica intelligente e ridefinendo le modalità di relazione con i clienti. La presenza sui mercati internazionali è altresì una grande esperienza di apprendimento per le aziende (ciò che viene chiamato “learning by exporting”): non è solo avendo le “spalle forti” che si inizia ad esportare, ma è anche cominciando ad esportare che si acquisiscono competenze, relazioni, risorse che danno solidità e prospettive all’impresa.

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