A gennaio il Parlamento italiano dovrà esprimersi sulla revisione dell’accordo intergovernativo sul Mes firmato nel 2012. E quella sarà, forse, la vera resa dei conti
Il 9 dicembre va in aula solo un’anteprima. In effetti, la “resa dei conti” sul Meccanismo europeo di stabilità (Mes) avverrà in gennaio quando la revisione dell’accordo intergovernativo del 2012 (firmata al termine del Consiglio dei Capi di Stato e di governo dell’Unione europea-Ue) dovrebbe essere ratificata dal Parlamento italiano.
Nel merito la questione è delicata. Numerosi giuristi, a cominciare dal Prof. Alessandro Mangia dell’Università Cattolica di Milano, sottolineano che sottoscrivere la revisione è un errore perché “dal punto di vista del diritto, il Mes un oggetto misterioso che galleggia nell’indistinto” ma può forzare, in certi casi, ristrutturazioni del debito anche quando gli Stati interessanti non lo desiderano.
Alcuni economisti sostengono che “la revisione mira a: rafforzare il ruolo del Mes nella prevenzione precauzionale e nella gestione (ex ante ed ex post) delle possibili crisi di debito dei Paesi dell’euro-area; semplificare le procedure in caso di ristrutturazione dei debiti pubblici; attribuire al Mes la funzione di backstop nella risoluzione delle crisi bancarie. Il nuovo statuto del Mes – ammettono – è problematico. Diversamente da quanto richiesto dalla Commissione a fine 2017, questa istituzione non è inserita nel quadro normativo europeo e non modifica la sua governance troppo accentrata; inoltre, essa ottiene eccessivi margini di autonomia nella gestione ex ante delle eventuali crisi di debito degli Stati-membri. Vi sono, però, – aggiungono – due importanti aspetti positivi: l’utilizzabilità di una linea precauzionale che può evitare a Paesi in difficoltà, ma reattivi (quali l’Italia), di rimanere intrappolati in crisi di debito e nei conseguenti programmi europei di aiuto, la creazione di un backstop per garantire liquidità ai processi di risoluzione bancaria. Essendo uno strumento di “ultima istanza” che interviene dopo l’utilizzo del bail-in e del Fondo unico di risoluzione, il backstop si attiva solo in presenza di ingovernabili crisi bancarie sistemiche; e, al di là dello stato di salute di specifiche banche, tali crisi sono più probabili in Paesi fragili (come l’Italia) che in Paesi solidi (come la Germania)”.
Il 5 dicembre, però, una cinquantina di economisti di area di centro-sinistra hanno sottoscritto un appello in cui si sostiene, tra l’altro: “Il Mes è estraneo all’ordinamento dell’Ue, e questa riforma rafforza il suo ruolo rispetto agli organismi comunitari, aumentando ulteriormente il carattere tecnocratico della gestione dell’Ue. Il dramma è che l’accrescimento di questo ruolo avviene a favore di una tecnocrazia che si è già dimostrata ampiamente inadeguata nelle scelte di politica economica. Anche personalità di indiscutibile fede europeista, come il presidente dell’Europarlamento David Sassoli e l’ex presidente del Consiglio italiano Enrico Letta, si sono dichiarate a favore di un radicale ripensamento di questo meccanismo, che dovrebbe essere ricondotto all’interno dell’ordinamento comunitario. Altri, invece, come il membro lussemburghese del board della Bce Yves Mersch, hanno chiarito in modo esplicito che il Mes non serve a “salvare gli Stati” – cosa che sarebbe impossibile senza l’intervento della Banca centrale europea – ma a sottoporli a una sorta di “amministrazione controllata” attraverso le “condizionalità”.
Mersch è giunto a minacciare una battaglia per frenare l’azione della Bce, di fondamentale importanza specie in questa fase, se i paesi europei non ricorreranno al Mes. Non si poteva spiegare più chiaramente che il Mes non è uno strumento di aiuto, ma di controllo, un controllo affidato a funzionari senza nessuna legittimazione democratica e il cui compito statutario è agire “nell’interesse del creditore”, indipendentemente dalle conseguenze che ciò può provocare al paese sottoposto alla sua potestà. “Qualsiasi seria riforma dell’ordinamento europeo deve prevedere l’abolizione del Mes. L’Italia non deve perdere l’occasione di affermare con forza questo punto”.
La materia è, quindi, quando meno controversa. Durante i governi Letta, Renzi e Gentiloni la posizione della diplomazia economica italiana è stata chiara e netta: la revisione dell’accordo Mes sarebbe dovuta andare di pari passo con il completamento dell’unione bancaria (tramite la garanzia europea sui depositi al fine di evitare che vengano utilizzati per il bail in in caso di risoluzioni di istituti) e l’avvio del negoziato per il mercato europeo dei capitali. Questi due punti erano all’ordine del giorno dell’ultima riunione del Consiglio dei ministri Economici e Finanziari dell’Ue, ma non sono stati affrontati.
La soluzione coerente e logica sarebbe firmare la revisione dell’accordo ma indicare che lo si sarebbe portato a ratifica solo con il completamento dell’unione bancaria e l’inizio della trattativa per l’unione del mercato dei capitali. Sarebbe stato opportuno dirlo chiaro e forte all’Ecofin ma si è ancora in tempo per farlo.