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Neppure l’emergenza fa da collante a Palazzo Chigi (sic!). Scrive Polillo

Il virus dovrebbe costringere a più miti consigli sia Palazzo Chigi che le altre stanze del potere. Invece la mescolanza tra improbabili posizioni politiche e pulsioni di potere è tale da rendere indecifrabile un dibattito interno, che genera sconcerto negli stessi alleati. Spiegare tutto questo non è facile. Può forse aiutare il confronto con la gestione del Piano Marshall

Quanto potrà ancora reggere la situazione? Non tanto quella dell’intero Paese, da tempo compromessa. Ma la sopravvivenza di un governo, legata ad una maggioranza che sembra sempre più dissolversi con il trascorrere dei giorni. Eppure l’emergenza, che permane, dovrebbe fare da collante. Costringere a più miti consigli sia Palazzo Chigi che le altre stanze del potere. Ma se il capogruppo dem al Senato, Andrea Marcucci, è costretto a smentire, in un’intervista a Il Corriere della sera, sue presunte trame contro il governo ed il proprio partito d’appartenenza, allora la situazione, come era solito ripetere Ennio Flaiano, è sempre più grave, ma altrettanto poco seria.
Eppure una qualche spiegazione ci deve essere.

La più ovvia è che tutti pensano al dopo. Quando in Italia giungeranno i soldi del Recovery plan, sulla cui gestione si possono costruire folgoranti carriere politiche, specie in vista di quelle elezioni che prima o poi dovranno essere concesse. Non capita tutti i giorni di dover spendere 208,8 miliardi. Quando, nell’immediato dopo guerra, con il piano Marshall, si verificò qualcosa di simile, gran parte di quelle risorse furono semplicemente congelate. E si trattava di molto meno: appena 1,2 miliardi di dollari. Che furono tuttavia dirottati, in notevole misura, per ricostruire le riserve della Banca d’Italia. Operazione indispensabile se si voleva rimettere in moto l’economia italiana, puntando soprattutto sull’apertura degli scambi. Linea che richiedeva, appunto, la preventiva ricostituzione delle riserve valutarie.

L’esatto opposto di quanto finora si è visto in Italia. In quest’anno trascorso con scarso coraggio ed ancor minore capacità gestionale, si è scelta la soluzione più semplice. L’indennizzo che non indennizza. Il ristoro che non ristora. L’elargizione del principe che si traduce, inevitabilmente, in un sollievo del tutto sproporzionato rispetto al danno emergente, ma soprattutto a quello prospettico. Nel dopoguerra si pensava che solo il lavoro sarebbe stato in grado di rimettere in moto un Paese sfibrato dalle distruzioni e dai grandi lutti nazionali. La stessa Cgil, con il suo “piano per il lavoro” aveva ben chiara questa prospettiva. Oggi l’idea centrale è la generalizzazione del reddito di cittadinanza. Seppur nelle forme più varie che è stato possibile escogitare.

Ed è così che tra piccoli interventi sul fisco (appena l’8 per cento delle risorse impegnate), un più robusto impegno per la spesa in conto capitale (il 28 per cento del totale) ed un dilagare di spesa corrente (il restante 64 per cento) il governo ha bruciato, nel quadriennio 2020/2023, qualcosa come 218 miliardi. Si è giocato, in altre parole, l’intero ammontare del Recovery plan. Altro che Next Generation. Con la conseguenza di far lievitare il debito ben oltre i picchi che, pure, erano stati previsti: 153,4 per cento nel 2022, secondo la Nadef governativa. Ma ben 159,1 per cento secondo la Commissione europea nelle sue ultime previsioni. Dati, comunque, che non tengono conto del nuovo debito che sarà conseguenza dei nuovi prestiti europei.

Dei 209 miliardi promessi, solo un’ottantina saranno grants (aiuti), i restanti 127,4 miliardi andranno comunque restituiti. Come dovranno essere restituiti i 37 miliardi del Mes, qualora fosse giocoforza richiederli. Altra impasse per la maggioranza. Un totale sconvolgente che è equivalente a circa 9 punti di Pil 2022: sempre che le previsioni di crescita del governo si dimostreranno fondate. Questo è quindi il lascito vero a danno delle nuove generazioni, altro che la spinta che Ursula von der Leyen avrebbe voluto dare in nome di un’Europa meno tecnocratica. E riaccendere la fiammella di una passione che l’inerzia tende, sempre più, a deprimere.

Ma, per tornare, con i piedi in Italia, l’aspetto più sorprendente della questione sono le difficoltà che hanno le varie forze politiche, che compongono la maggioranza, a trovare la quadra. La verità è che tutti i loro programmi sono evanescenti. Il Pd continua a ripetere green deal, digitalizzazione, e lotta alle diseguaglianze come se questi semplici targets potessero assolvere ad una funzione salvifica. Per inciso va ricordato che, nel campo delle energie rinnovabili, l’Italia, per bocca della stessa Commissione europea, è ben più avanti rispetto ai propri partner. Ben altri sono, quindi, i suoi ritardi e le sue arretratezze. Ad esempio nel campo delle infrastrutture. Ed allora verso quegli obiettivi dovrebbero essere orientate le indispensabili risorse. Piuttosto che cedere alle lusinghe della moda.

I 5 Stelle, dal canto loro, sono reduci da continue disfatte. Hanno teorizzato la “decrescita felice”. E purtroppo vi hanno contribuito in modo determinante. Salvo scoprire, alla fine, quanto questa prospettiva poteva essere dolorosa. Hanno osteggiato, fino allo spasimo, ogni tentativo di modernizzazione. Dalla Tap alla Tav, passando per l’Ilva e via dicendo. Ed alla fine sono stati costretti a chinare il capo. Hanno dichiarato guerra alla “casta”, per poi trasformarsi in bramini. Ed ora la mescolanza tra improbabili posizioni politiche e pulsioni di potere è tale da rendere indecifrabile un dibattito interno, che genera sconcerto negli stessi alleati.
Spiegare tutto questo non è facile. Può forse aiutare il confronto con la gestione del Piano Marshall.

Allora, nel bene e nel male, si scelse di sacrificare ogni cosa alla ripresa ed allo sviluppo. L’Italia da paese prevalentemente contadino doveva divenire diventare un’economia industriale. Anche se questa trasformazione avrebbe implicato costi sociali enormi. Tracciata la rotta, fu relativamente facile, almeno sul piano concettuale, fare le scelte conseguenti. Oggi, ciò che manca in Italia, è proprio questo. Cioè quel “mainstream”, come dicono gli inglesi, quell’idea centrale, quella corrente dominante che, come nel jazz, cattura il pubblico e rende grande la musica. Mancando la quale non resta che un’indigesta cacofonia.

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