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Vi spiego l’effetto Draghi sulla verifica di governo. Scrive Polillo

Le proposte del G30 guardano a un rilancio globale sulla base di un’economia ripensata e riorganizzata, che poggi su nuove certezze. Ma forse nel monito finale, di fronte al palleggiamento governativo della verifica, a più di un membro della maggioranza parlamentare, è venuto, all’improvviso, un forte dolore alle orecchie

La cosa che più colpisce in questo momento così convulso della situazione politica italiana è la diversità degli approcci. Italia viva ed il Pd si sono sforzati di mettere sul tavolo le preoccupazioni, le angosce di tanti italiani per fornire almeno abbozzi di possibili soluzioni. Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha seguito, invece, la strada opposta. Fornito generiche assicurazioni e derubricato il tutto a scontro politico personale.

“Da parte di Italia Viva – ha commentato, secondo il virgolettato de Il Corriere della sera – presentare proposte prendere o lasciare sarebbe sbagliato e irresponsabile”. Come se nel documento elaborato in vista dell’incontro di vertice non trasparissero le preoccupazioni per le sorti del Paese. E quelle stesse proposte non fossero, in qualche modo, il derivato di un’analisi più approfondita. Che naturalmente non deve essere necessariamente condivisa. Ma dalla quale non si può prescindere con il fine di ricondurre il tutto alle angustie dello scontro personalizzato della politica politicante.

É bene partire da qui per capire l’effetto Draghi. Il suo intervento si è inserito in questa fase tormentata, che gli ha fatto da cassa di risonanza. Effetto forse non voluto. Certamente non premeditato, date le caratteristiche di quell’intervento: un pamphlet di una sessantina di pagine. Un lavoro collettaneo svolto a nome e per conto del Gruppo dei Trenta. Un simposio che raggruppa forse il gotha dell’economia e della finanza internazionale: da Jean-Claude Trichet, a Paul Krugman e Janet L. Yellen.

Solo per citarne alcuni e di cui lo stesso Draghi, che ha avuto la responsabilità di curare il rapporto, è membro del comitato direttivo. Del resto il documento non si rivolge solo all’Italia, ma all’insieme di quei Paesi che sono stati colpiti dal virus. Più di 170, almeno a giudicare dalle statistiche della Johns Hopkins University. Eppure nonostante tutto ciò, quel report ha fatto rumore. Subito interpretato come una sorta di controcanto rispetto alle politiche messe in atto dal Governo giallo rosso. Come dire: la lingua batte dove il dente duole. Ed in effetti il suo significato più profondo ne contraddice in radice i postulati fin qui seguiti.

La chiave di lettura del documento è nelle premesse: “Il problema – vi si afferma – è peggiore di quanto appaia in superfice”. Una sintesi che ha allarmato e dato forma, per l’autorevolezza degli autori, ai dubbi che da tempo agitano la mente di un numero crescente di italiani. Da adesso in poi non si potrà più rispondere con una scrollatina delle spalle di fronte alle critiche politiche o pensare che certe valutazioni siano solo conseguenza del pregiudizio. Nel prospettare il futuro – sempre che a questo si guardi con la necessaria lungimiranza (cosa quanto mai incerta nella situazione italiana) – pesano le mille difficoltà di una crisi tutt’altro che risolta.

“La difficoltà connessa con la durata e il percorso di ripresa – scrivono gli autori – dopo la pandemia e la necessità di distinguere i cambiamenti strutturali della domanda da quelli temporanei, rendono difficile prevedere la redditività prospettica delle imprese”. Il rischio conseguente è quindi quello di una crisi di solvibilità di cui è difficile valutare in anticipo la possibile dimensione. Finora, infatti, la politica economica ha garantito la necessaria liquidità, “ma ora la questione cruciale è la solvibilità”. Vale a dire: in che modo le aziende potranno far fronte ai loro impegni finanziari? Il rischio è quello di “un precipizio di insolvenza” in cui perdono tutti: sia coloro che hanno erogato i fondi, sia le aziende che hanno consumato, nel susseguirsi delle perdite, il proprio patrimonio.

Per l’Italia questi rischi sono stati evidenziati in un recente report della Banca d’Italia (Gli effetti della pandemia sul fabbisogno di liquidità, sul bilancio e la rischiosità delle imprese). Diversi i pericoli e le possibilità di snow ball. L’eventuale insolvenza di molte imprese avrebbe un duplice riflesso: sul sistema bancario darebbe luogo al formarsi di no performing loans. Sul bilancio dello Stato all’aprirsi di una vera e propria voragine, dovuta al fatto che le garanzie previste non sono state interamente contabilizzate. Lo saranno solo nel momento in cui daranno luogo alle necessarie erogazioni di cassa.

Per far fronte ad incertezze, che hanno questa portata, gli autori predicano un approccio diverso dal passato, pur tenendo conto di quanto sperimentato nelle precedenti crisi finanziarie. Tre i capisaldi di questa nuova politica: l’accettazione di alcuni principi universali; l’approntamento dei necessari strumenti di intervento ed una struttura decisionale in grado di introdurre le necessarie modifiche anche di carattere giurisdizionale. L’obiettivo è quello di supportare “la resilienza e la crescita economica a lungo termine al fine di garantire miglioramenti su vasta scala del tenore di vita, riducendo al minimo i costi per il pubblico”.

Il decalogo dei principi prevede: affrontare con urgenza il problema della solvibilità delle imprese, indirizzare con attenzione il sostegno pubblico al fine di irrobustire le basi del sistema economico, favorire i processi di riconversione, piuttosto che garantire la difesa dello status quo, utilizzare gli strumenti di mercato, ma pronti a far fronte ai suoi fallimenti, utilizzare al massimo l’esperienza del settore privato ai fini dell’ottimizzazione delle risorse, bilanciare attentamente il dirigismo in materia economica con la libertà d’impresa, minimizzare il rischio e massimizzare i vantaggi per i contribuenti, evitando favori ingiustificati per le imprese, governare il moral hazard, senza giungere a forme di paralisi, garantire ai programmi la necessaria flessibilità per tener conto delle incertezze nell’evoluzione del quadro legato alla pandemia, preservare, per quanto possibile, il settore finanziario da eventuali contagi, derivanti dalle crisi aziendali.

Gli strumenti possibili sono quelli legati all’uso del credito, da indirizzare verso quei settori che hanno maggiori possibilità di ripresa, favorire la diffusione dell’azionariato tra il pubblico, consentire le necessarie ristrutturazioni dei bilanci delle imprese per accrescere la loro redditività, fino a prevedere la riforma delle procedure fallimentari, favorire forme più estese di assicurazioni e riassicurazioni contro i rischi sanitari, disegnare nuove procedure per affrontare il problema dei non performing loans: destinati a crescere.

Questa complessa struttura d’intervento dovrebbe, infine, essere supportata, da una governance adeguata. Dalle relative decisioni dovrebbero scaturire le indicazioni delle relative priorità, la tipologia delle aziende da assistere, l’esatta determinazione delle risorse disponibili; il tipo di intervento da portare a termine nel rispetto dei principi precedentemente indicati. Il monito finale è: “fare presto”. È necessario agire con urgenza perché “la crisi di solvibilità sta già erodendo le basi del settore economico di molti Paesi”. Come si diceva, all’inizio, il paper non guarda all’Italia. Ha come scenario il mondo. Ma forse nel monito finale, di fronte al palleggiamento governativo della verifica, a più di un membro della maggioranza parlamentare, è venuto, all’improvviso, un forte dolore alle orecchie.

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