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Venezuela al voto. Così Maduro guarda alla Russia per sbarazzarsi di Guaidó

Di Carmine de Vito

Vittoria quasi scontata per Maduro, che blinda l’alleanza con la Russia in un quadro geopolitico regionale nuovamente favorevole. Il commento di Carmine de Vito, analista di politica, sicurezza e geopolitica sudamericana (PhD-c Universidad Rey Juan Carlos, Madrid)

Dalle 4 del mattino ora locale a Caracas, migliaia di persone e sostenitori del chavismo sono scese in piazza per la tradizionale cerimonia del toque de diana (scoppi di petardi e fuochi d’artificio) per motivare gli elettori a votare alle elezioni parlamentari di oggi.

Si vota per il rinnovo dell’Assemblea Nazionale, il principale organo legislativo del Paese e spina nel fianco del chavismo.

Un totale di 20.710.421 di venezuelani potranno esercitare il proprio diritto di voto dopo essersi registrati nelle liste elettorali del Cne (Consiglio elettorale nazionale) con una speciale procedura avvenuta dal 13 al 29 luglio. Circa 14.400 candidati si contendono 277 seggi, 110 in più rispetto all’ultima consultazione. Trentasei sono le organizzazioni politiche nazionali: sei indigene e il resto, partiti locali o regionali o con rappresentanza in un’area specifica.

La maggior parte sono affiliati all’”Alleanza ufficiale” conosciuta come il Grande polo patriottico (Gpp) articolata attorno al Partito socialista unito del Venezuela (Psuv), mentre l’alleanza di opposizione, la Mesa de la Unidad Democrática (Mud), si compone di circa una decina di partiti con varie identità e posizioni che hanno deciso di partecipare alla competizione elettorale.

Nel 2015, sorprendentemente, vinse l’opposizione, determinando un primo scossone al blocco di potere alla guida del Paese dopo 16 anni di continui successi.

Juan Guaidó, il presidente autoproclamato e riconosciuto da una cinquantina di Paesi della comunità internazionale, ha deciso per il boicottaggio, entrando in contrasto con gli altri esponenti della Mud che hanno ritenuto politicamente importante una presenza nell’assemblea, nonostante le difficoltà e la trasparenza del voto non garantita.

Il risultato appare scontato a favore di Nicolás Maduro che oltre alle divisioni nell’opposizioni, ha aspettato e lavorato ai fianchi l’immagine e la credibilità di Guaidó, in patria e all’estero, con l’abile collaborazione della diplomazia russa, sempre più deus ex machina nella tutela di un alleato considerato strategico.

Nei giorni scorsi è arrivata a Caracas, preannunciata dal ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, una delegazione russa di osservatori guidata da Igor Ananskij, vicepresidente della Duma e composta da una decina di deputati e senatori russi.

L’Europa ha tentennato, mostrando un’effettiva incertezza su Guaidó con l’invio nei mesi scorsi di una missione diplomatica a Caracas su egida dell’Alto rappresentante dell’Unione europea Josep Borrell; missione naufragata sotto le continue critiche di un implicito riconoscimento al regime.

Contemporaneamente, la Spagna ha modificato la propria postura; il governo di Pedro Sánchez ha inviato a Caracas un nuovo ambasciatore, lo stesso che ha ricostruito i buoni uffici a Cuba dopo la marginalizzazione dei rapporti bilaterali decisa dai governi precedenti.

Maduro e tutto il blocco chavista hanno preparato con cura certosina l’appuntamento elettorale dopo il pasticcio del 5 gennaio scorso, quando la Guardia nazionale si era schierata di fronte al Parlamento, impedendo a Guaidó e ai suoi sostenitori (oltre che a molti giornalisti) di entrare in Assemblea per votare, lasciando passare solo i deputati chavisti fino all’autoproclamazione farsa del deputato Luis Parra.

Lo slogan di Maduro per vincere le elezioni è “salvare l’Assemblea” per  riallinearla alle posizioni governative e far decadere Guaidó dalla carica di presidente, condizione che ha giustificato costituzionalmente sia l’autoproclamazione sia il riconoscimento internazionale nelle funzioni di presidente ad interim del Paese.

Ha mobilitato tutte le forze a sua disposizione: i comitati bolivariani di quartiere, i dipendenti pubblici e tutto l’apparato militare delle Farb (Forze armate rivoluzionarie bolivariane) che non ha mia avuto cedimenti di fedeltà, nonostante le forti pressioni d’intelligence dall’esterno.

La sconfitta di Donald Trump, la pandemia e un quadro geopolitico regionale in mutamento dal Messico di Andrés Manuel López Obrador all’Argentina dei Fernández, passando per la rediviva Bolivia riconquistata dal Mas (Movimento per il socialismo), hanno di fatto depotenziato l’Osa (Organizzazione degli Stati americani) con il suo segretario generale Luis Almagro, altro acerrimo nemico di Maduro.

Condizioni tutte favorevoli al perpetuarsi del sistema di potere in Venezuela ma che hanno almeno il senso della chiarezza e delle parti. Quella che è mancata nei vari tentativi di negoziato finora falliti, senza il coraggio di una reciproco riconoscimento e la volontà a costruire una giusta e non più procrastinabile transizione democratica.



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