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Accordo Ue-Cina? Prima i diritti umani. Parola di Gancia (Lega)

Di Gianna Gancia

Diritti umani e responsabilità di Pechino sul Covid-19. Ecco ciò su cui dovremo riflettere, noi deputati al Parlamento europeo, prima di decidere se ratificare l’accordo sugli investimenti Ue-Cina. Il commento di Gianna Gancia (Lega)

Il 30 dicembre scorso l’Unione europea e la Cina hanno concluso un accordo sugli investimenti senza precedenti (il Comprehensive Agreement on Investment, o Cai), concludendo, dopo 35 round negoziali, sette anni di trattative.

L’accordo renderà i due blocchi economici ancora più interdipendenti, garantendo – nelle intenzioni generali – libero accesso a entrambe le parti a diversi settori del mercato quali telecomunicazioni, finanza e mercato automobilistico, come mai fino a oggi.

La Cina rappresenta per l’Unione europea un mercato fondamentale e in continua espansione, testimoniato dagli oltre 477 miliardi di euro di volume di scambi commerciali nei primi dieci mesi del 2020 (fonte: Eurostat), in aumento del 2,2% rispetto al 2019.

Oltre agli innegabili benefici derivanti dall’avere un accesso privilegiato al mercato di quasi un miliardo e mezzo di cittadini cinesi, il vantaggio principale per l’Unione europea sta nella garanzia, almeno sulla carta, della dimensione normativa: in particolare, per ciò che concerne la trasparenza, la prevedibilità e la certezza legale delle condizioni d’investimento.

Non ho quindi timore o ritrosia alcuna nel ritenere che il Cai rappresenti per i cittadini europei un’opportunità straordinaria in termini economici, soprattutto per le centinaia di migliaia di imprese europee protagoniste dell’export verso la Cina, che solo per il nostro Paese vale tra gli 8 e 13 miliardi di euro all’anno.

È innegabile, tuttavia, che ogni accordo commerciale concluso con la Cina impone una seria riflessione su quelle che possiamo definire le “condizioni di contorno”: in primis il rispetto dei diritti umani nel Paese e le sempre più evidenti responsabilità del regime comunista di Pechino nella gestione delle informazioni legate alla diffusione del Covid-19 durante i primi mesi del 2020.

Basti pensare alle condizioni in cui vive e lavora la minoranza musulmana degli uiguri nella regione dello Xinjiang e in altre parti del Paese. Secondo uno studio dell’Australian Strategic Policy Institute, nello Xinjiang ci sarebbero almeno 380 tra centri rieducativi, campi di detenzione e prigioni: un numero che è notevolmente cresciuto negli ultimi tre anni. Ritengo sia una grave mancanza non aver incluso alcun impegno giuridico da parte cinese contro il lavoro forzato nella bozza finale dell’accordo.

Non dimentichiamoci, poi, che nel silenzio generale dell’Occidente la Cina continua a reprimere la libertà di stampa ed espressione dei suoi giornalisti: non da ultimo il caso di Zhang Zhan, la blogger che aveva diffuso su internet notizie sulla diffusione dell’epidemia di Covid-19 nel Paese, che è stata condannata con false accuse a quattro anni di carcere.

Qualche giorno fa il New York Times ha pubblicato una lunga inchiesta su come Pechino abbia manipolato a suo favore la comunicazione pubblica durante i mesi più gravi della pandemia nel Paese, impiegando centinaia di migliaia di persone in attività di censura e propaganda online.

Tutto questo non può lasciarci indifferenti. Come europei, come depositari dei due pilastri fondamentali di una democrazia matura, libertà individuale e stato di diritto, non possiamo permetterci di non essere noi a esercitare quel soft power indispensabile per incidere sullo scacchiere geopolitico mondiale.

Questo accordo non deve trasformarsi nell’ennesima occasione di mettere in luce la recidivante incoerenza di cui l’Unione europea si macchia nella definizione e nella comunicazione della propria identità e posizione.

Su tutto questo dovremo riflettere, noi deputati al Parlamento europeo, nel momento in cui saremo chiamati a ratificare l’accordo.

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