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Addio Trump. Il dissenso di diplomatici, intelligence e apparati

Intelligence, diplomazia e apparati di sicurezza manifestano il loro dissenso verso il presidente uscente. Da Capitol Hill non si torna indietro

Da circa un anno circolano delle lettere aperte sottoscritte dai membri dell’intelligence contrari all’uso politico dei servizi di sicurezza che ha contraddistinto la presidenza Trump. Sei mesi fa una lettera aperta alla Casa Bianca è stata firmata da più di 450 membri dell’intelligence per fermare la deriva iniziata del presidente Trump. Il tycoon repubblicano ha cercato di strumentalizzare l’intelligence senza preoccuparsi dei rischi che questo avrebbe comportato per la democrazia americana. L’Intelligence Community è stata a lungo considerata la struttura cresciuta all’ombra del potere di Washington, ma negli ultimi anni i media hanno più volte portato alla luce alcune delle vicende che la riguardavano, mostrando quanto successo nei rapporti tra le agenzie indipendenti e la Casa Bianca, criticando il tentativo di Trump di imporre una progressiva politicizzazione di alcune funzioni dei servizi di sicurezza.

I sintomi più evidenti della torsione lealista che Trump ha provato a imporre all’intelligence sono stati gli scontri con i vertici dei servizi americani e le minacce alle voci che dissentivano rispetto alla sua linea politica. Trump ha cambiato più volte le persone alla guida dei servizi segreti. Ha rotto i rapporti con l’allora direttore dell’FBI James Comey e poi ha sostituito per due volte il direttore dell’Intelligence Nazionale (la struttura che coordina tutte le agenzie di sicurezza), preferendo persone con poca esperienza a civil servant di lunga data, premiando la fedeltà rispetto all’imparzialità. L’ultimo direttore dell’Intelligence Nazionale nominato da Trump è John Ratcliffe. Si tratta di uno dei più conservatori tra i politici repubblicani scelto per guidare tutti i servizi di sicurezza dopo essere stato sindaco di un paese di circa 7000 anime poco distante da Dallas e membro della House of Representatives per una legislatura. Inoltre, Trump ha pubblicamente minacciato chi nei servizi avrebbe potuto parlare contro di lui di revocare la security clearance (Nulla Osta di Sicurezza), cioè l’attestazione di affidabilità di funzionari e esperti che possono accedere alle informazioni classificate.

Dopo il dissenso dei massimi esponenti dell’intelligence e del Pentagono, anche i think tank della capitale americana e una parte della diplomazia americana hanno preso posizione contro il presidente uscente dopo l’assalto al Congresso del 6 gennaio. Secondo Freedom House, l’istituto che pubblica ogni anno un ranking sullo stato di salute della democrazia e delle libertà, Trump deve lasciare la Casa Bianca immediatamente. Brookings, uno dei più autorevoli centri studio della capitale, invoca il venciticinquesimo emendamento e la rimozione di Trump.

Fanno sentire la propria voce anche dagli uffici del servizio diplomatico americano. Nel “dissent channel” del Dipartimento di Stato – uno canale di comunicazione in cui i diplomatici e funzionari possono condividere il proprio pensiero senza rischiare ritorsioni o altre misure repressive – sono apparsi due comunicati. Si afferma la necessità di supportare il vice-presidente Pence in ogni tentativo di rimuovere Trump e si chiede al Dipartimento di Stato di denunciare il presidente per le sue responsabilità nell’attacco al Congresso. Secondo quanto riporta il comunicato: “è essenziale dire al mondo che nel nostro sistema, nessuno – neanche il presidente – è sopra la legge. Questo sarebbe un primo passo per riparare il danno alla credibilità internazionale dell’America.”

La risposta del Segretario di Stato è arrivata tramite i social e le decisioni di politica estera. Dopo la diffusione dei comunicati dei dissidenti è sugli account del Segretario di Stato è stata pubblicata una foto dei tre “fedelissimi di Trump”, così come il new York Times li ha ribattezzati, cioè lo stesso Mike Pompeo, John Ratcliffe e Robert O’Brien (Consigliere per la sicurezza nazionale). Il segnale è molto chiaro: alla guida dell’intelligence e della diplomazia restano ancora per 10 giorni gli uomini del presidente uscente e stanno usando il loro potere decisionale per spostare la politica estera americana su posizioni più estreme e vincolare la prossima amministrazione.

Ad esempio, Pompeo ha da poco inserito Cuba nella blacklist degli stati che finanziano il terrorismo. In questo modo, le relazioni tra Stati Uniti e Cuba ritornano a prima dell’era Obama e del disgelo seguito a ottant’anni di tensione. L’altra scelta che è stata criticata dagli esperti di politica estera americana è l’aver inserito il gruppo yemenita degli Huthi tra le organizzazioni terroristiche. Questa dichiarazione rischia di aggravare ancora di più la crisi umanitaria in Yemen come spiegato dal congressman Michael McCaul e dal senatore Jim Risch. I due esponenti repubblicani del Congresso hanno parlato di un effetto devastante sulla crisi alimentare nel paese del golfo già devastato da una guerra civile iniziata nel 2015.

L’establishment si rivolta apertamente contro Trump dopo il 6 gennaio, mentre gli ultimi trumpiani al potere proveranno fino alle 12.00 del 20 gennaio a lasciare sul volto dell’America i segni della poltica del tycoon.


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