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(Dis)equilibri nel Mediterraneo. Il gen. Bertolini legge il mare nostrum

Stati Uniti, Russia e Cina, ma anche Turchia, Egitto e Algeria: il Mediterraneo è al centro di un gioco tra potenze globali e regionali. Nel mezzo l’Italia, troppo “passiva” e con la speranza di guadagnare terreno con Joe Biden. Intervista al generale Marco Bertolini, già comandante del Coi e della Folgore

Ribolle il Mediterraneo, tra l’aumento dell’assertività russa, la perdurante crisi libica e una Turchia determinata a guadagnare spazi. E mentre la Cina struttura la sua Via della Seta verso l’Europa, l’Italia soffre ormai da anni di “passività”, in attesa che l’amministrazione targata Joe Biden possa aumentare gli spazi d’azione. È il quadro sull’ormai ex “mare nostrum” del generale Marco Bertolini, già comandante del Comando operativo di vertice interforze (Coi) e della Brigata paracadutisti Folgore, prossimo protagonista di “Nuovi equilibri nel Mediterraneo”, l’appuntamento organizzato giovedì 21 gennaio da Stroncature, nell’ambito della winter school di Geopolitica diretta da Massimo Franchi.

Generale, quali sono i “nuovi equilibri nel Mediterraneo”?

Parlerei più che altro di “disequilibri”, visto che gli equilibri ai quali eravamo abituati hanno subìto nel tempo variazioni piuttosto rilevanti. Negli ultimi anni per l’area euro-mediterranea è venuta meno la stabilità derivante dall’essere in prima linea nell’equilibrio tra le due super-potenze della Guerra fredda, un equilibrio garantito dalla capacità di mutua distruzione assicurata.

E ora?

Ora ci troviamo in una nuova fase. La Russia, dopo anni di ridimensionamento dall’agone strategico internazionale, si è riaffacciata nel Mediterraneo con determinazione, salvando la sua presenza in Crimea, rafforzando il suo alleato in Siria e mantenendo un’altra opzione tramite l’alleanza con Haftar. Tale ritorno russo è stato favorito, negli ultimi quattro anni targati Donald Trump, dalla parziale eclissi della presenza statunitense. Ciò ha permesso a Mosca persino di stringere un’alleanza con la Turchia, componente importante della Nato, ma lanciata in un disegno strategico autonomo.

Con Joe Biden cambierà la postura americana?

Staremo a vedere. Probabilmente cambierà l’approccio rispetto alla riduzione del footprint nel Mediterraneo centrale e occidentale, ad esempio in Libia e, soprattutto, nei confronti della Russia. L’avversione dei democratici americani per la Russia è cosa abbastanza nota, e fa il paio con quella per Vladimir Putin. Credo che da parte degli Stati Uniti ci sia dunque da attendere un cambiamento verso il Mediterraneo, come dimostrerebbero gli ultimi atteggiamenti di Erdogan.

Ci spieghi meglio.

La Turchia aveva preso una strada assolutamente autonoma rispetto alla Nato, con toni aggressivi che tutti ricordiamo nei confronti della Grecia. Ultimamente, parlando agli ambasciatori dei Paesi dell’Unione europea, Erdogan ha riaffermato l’interesse turco ad avere buoni rapporti con l’Europa, lanciandosi addirittura in messaggi di amicizia per Atene. Un voltafaccia non indifferenze, probabilmente legato alla necessità di cambiare registro di fronte a quella che prevede essere una diversa postura da parte degli Stati Uniti di Joe Biden.

Dovremmo attenderci una Turchia più amichevole rispetto agli ultimi mesi?

Forse sì. Fino a ieri si poteva pensare a una potenza regionale desiderosa di dotarsi di un ampio livello di autonomia. Ora è possibile che qualcosa debba essere rivisto per l’esigenza di coprirsi dal lato Nato e Usa. In ogni caso, dovremmo attenderci una Turchia protagonista dei nuovi equilibri che si andranno a creare. Parliamo di una potenza mediterranea e intercontinentale, radicata in Libia, con zone economiche esclusive allargate (a spese di Grecia e Italia), assertività in aumento e radici che affondano in Asia centrale. È presente in Afghanistan non in modo formale, ma sostanziale, con un approccio originale all’interno della missione Nato. È infatti intervenuta in maniera meno cinetica rispetto ad altri, proprio per interessi e vicinanze di carattere culturale con le popolazioni dell’area.

Come si colloca l’Italia nei nuovi disequilibri del Mediterraneo? È vero che abbiamo perso terreno come notano diversi esperti?

Sì, non c’è dubbio. L’Italia ha perso terreno perché è stata decisamente passiva. Si può discutere se la strategia della passività possa portare a risultati o meno, ma resta il fatto che quanto accade (ed è accaduto) nel Mediterraneo avviene a prescindere dagli interessi e dalle volontà del nostro Paese.

La situazione può cambiare?

Molto dipenderà dai rapporti con gli Stati Uniti. Se Biden riaffermerà la linea di Obama (in realtà molto più antica), dati i rapporti tra i democratici americani e italiani, ci potrà essere un miglioramento. Ciò non avverrà però grazie alla nostra assertività, quanto per una congiuntura favorevole. D’altronde sono numerosi gli esempi di passività degli ultimi anni. Anche l’Algeria ha allargato la sua zona economica esclusiva a spese della nostra a ovest della Sardegna. Non posso non citare la crisi recente che ha visto i nostri pescatori sequestrati da Haftar, né la gestione dei rapporti con l’Egitto. Tutto questo dà prova dell’assenza di consapevolezza dell’area in cui ci troviamo.

Il giudizio è forte…

Ma inevitabile. L’Italia dice spesso di essere “il confine meridionale dell’Europa”. Non è vero. Siamo al centro del continente euro-mediterraneo, da considerare come un unicum di Europa e Mediterraneo, compresi i Paesi rivieraschi. Riconoscersi “confine meridionale dell’Europa” significa escludere gli Stati che si affacciano da sud nel Mediterraneo, come se fossero cosa estranea. Ciò porta ad assumere un atteggiamento sprezzante nei confronti di nord Africa e Medio Oriente, e la volontà di dare insegnamenti sull’amministrazione della giustizia interna all’Egitto ne è esempio piuttosto evidente. Il caso Regeni è doloroso e merita approfondimento. Ma è possibile (e mi riferisco al caso Zaki) che le questioni interne egiziane arrivino a incrinare i rapporti tra Roma e Il Cairo? Io credo di no. Anche perché parliamo di un Paese indispensabile nella lotta a quel terrorismo islamista che tanto ci spaventa. Parliamo del Paese arabo più popoloso del Mediterraneo con cui, anche non volendo, bisogna fare i conti.

L’Egitto sembra determinante anche per la crisi libica, la cui soluzione resta prioritaria per l’Italia. Che futuro prevede per la Libia?

Credo che la Libia sia destinata a diventare “le Libie”. Pare infatti difficile ricucire in tempi brevi le fratture esistenti, e forse siamo destinati a vedere una divisione tra la Libia onusiana di Serraj, Tripoli-centrica, e quella che fa riferimento ad Haftar, a Bengasi e alla Cirenaica, dove gli interessi russi ed egiziani si fanno sentire a scapito dell’Onu. Nonostante tutti i contatti e le conferenze, non credo che a breve vedremo il ritorno a una Libia unita in stile Gheddafi.

Alla Libia si collega il Sahel, altro contesto in ebollizione con la Francia a chiedere supporto per la task force Takuba (supporto che l’Italia ha promesso). Ci sarà da attenzionare di più anche questa area?

Sì. Ormai il Sahel rientra a pieno diritto nell’area mediterranea, o comunque nell’area di interesse mediterraneo, soprattutto per il venire meno della barriera che, con Gheddafi, era assicurata dalla Libia, allora capace di controllare il proprio territorio. La regione ospita una presenza importante di al Qaida e dello Stato islamico. Fortunatamente (si fa per dire) tale presenza intacca gli interessi francesi, e così la Francia se ne fa carico con due operazioni, Barkhane e Takuba, specifica di contro-terrorismo. Ci sono poi le missioni dell’Onu e la presenza statunitense, e anche l’Italia ha deciso di incrementare il proprio ruolo. L’Europa fa bene a interessarsi della regione, destinata in futuro a entrare tra le priorità strategiche proprio in virtù dell’assenza della barriera libica.

Chiudiamo il quadro: il Medio Oriente è ancora instabile, cosa prevede per l’area?

È un’area delicata, in cui permane la questione israelo-palestinese su cui, negli ultimi anni, Israele ha potuto vantare il forse supporto di Trump. Non credo che tale supporto cambierà con Biden, considerando che la postura di amicizia è trasversale alla politica americana. Certo, alcuni provvedimenti come la capitale a Gerusalemme o l’assegnazione dei territori ai palestinesi potrebbero essere rivisti, ma non dovrebbe cambiare molto. Diverso il caso dell’Iran, per cui Biden ha promesso di riportare i toni di Obama. Vedremo. Intanto ci sarà da guardare con attenzione al Libano.

Perché?

Perché in Libano, dopo l’esplosione nel porto di Beirut, avanza strisciante una pericolosa crisi da cui non si riesce a venire fuori. Il Paese è considerato poco influente nell’area, più vittima spettatrice che protagonista. Ma se la crisi scoppiasse, sarebbe tra quelle a più difficile soluzione.

Ha parlato di Russia e Stati Uniti, ma nei nuovi disequilibri mediterranei c’è anche la Cina?

Sì. La Cina non è una potenza mediterranea ma un Paese dell’estremo Oriente. Eppure la Via della Seta punta dritta all’Europa. L’Italia è tra gli obiettivi di tale penetrazione, sia da un punto di vista geopolitico, sia da una prospettiva sociale. Spesso si parla dell’interesse cinese sulle infrastrutture europee, dal controllo del Pireo in Grecia alle mire su Trieste. Ma in realtà la Cina ha già infrastrutture radicate nel nostro Paese; sono le comunità cinesi, presenti nelle nostre principali città, spesso autoreferenziali e rispondenti a un unico referente principale: il governo cinese, attraverso i vari consolati. È una presenza importante che non credo meriti meno interesse rispetto alle infrastrutture vere e proprie.

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