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La lettera (dura) dei capi del Pentagono a Trump. Da Rumsfeld a Esper

Ci sono gli ultimi 32 anni di leadership del Pentagono nella lettera aperta sul Washington Post che chiede a Donald Trump di non coinvolgere i militari nella sua contesa elettorale. Parole dure, che uniscono repubblicani e democratici, e che aumentano l’isolamento del presidente uscente. Intanto, al Congresso…

Pesano parecchio le dieci firme sull’editoriale di domenica del Washington Post. Ci sono tutti gli ex capi del Pentagono, uniti nel chiedere a Donald Trump di non usare le Forze armate per tentare di sovvertire il risultato elettorale dello scorso 3 novembre: “Ci porterebbero in un territorio pericoloso, illegale e incostituzionale”. Sommata al voto al Senato di venerdì che ha permesso di superare per la prima volta in quattro anni un veto del presidente uscente (per un maxi budget militare da 740 miliardi di dollari), la lettera aperta stringe il cerchio intorno a Trump, ormai rimasto con i fedelissimi.

LE FIRME

Ci sono tutti gli ex segretari alla Difesa degli ultimi trentadue anni ad esclusione di Leslie Aspin, il primo capo del Pentagono di Bill Clinton, morto nel 1995. Ci sono persino i due dell’era Trump (esclusi quelli pro tempore): il generale James Mattis, che ha lasciato nel 2018 dopo aver preso abbondanti distanze dalla politica della presidenza sui ritiri, e Mark Esper, dimessosi dopo il voto del 3 novembre, forse avvertendo che la transizione si sarebbe resa particolarmente delicata proprio al Pentagono. C’è Dick Cheney, che prima di essere stato vice presidente per gli otto anni di George W. Bush era stato capo del Pentagono con il padre. Ci sono i clintoniani William Perry e William Cohen, il repubblicano di ferro Donald Rumsfeld (già segretario alla Difesa con Gerald Ford negli anni 70) e Robert Gates, scelto da Bush e poi confermato da Obama. Seguono gli altri tre capi del Pentagono dell’ex presidente dem: Leon Panetta, Chuck Hagel e Ashton Carter.

I DESTINATARI

I dieci chiariscono il quadro: “Le elezioni sono avvenute; i riconteggi e gli audit sono stati svolti; i tribunali hanno affrontato le questioni aperte; i governatori hanno certificato i risultati e il collegio elettorale ha votato”. Dunque, aggiungono, “il tempo per mettere in discussione i risultati è passato; il tempo per il conteggio formale dei voti del collegio elettorale, come prescritto dalla Costituzione e dallo statuto, è finito”. Il destinatari del messaggio sono due: Donald Trump e il suo attuale segretario alla Difesa, Chris Miller, già accusato direttamente da Joe Biden di porre “ostacoli” alla transizione rischiando di “minare la sicurezza nazionale”. I dieci ex capi del Pentagono ricordano che le transizioni “sono determinanti per la riuscita del trasferimento di potere”.

L’ATTENZIONE ALLA SICUREZZA

Anche loro sollevano i rischi securitari: “Spesso le transizioni si verificano in periodi di incertezza internazionale circa la politica e la postura di sicurezza nazionale degli Stati Uniti: possono avvenire un momento in cui la nazione è vulnerabile alle azioni degli avversari che cercano di trarre vantaggio dalla situazione”, avvertono gli ex capi del Pentagono. E dunque “i funzionari civili e militari che dirigono o eseguono tali misure (ovvero gli ‘ostacoli’ di cui parlava Biden, ndr) sarebbero responsabili, e potenzialmente soggetti a sanzioni penali, per le gravi conseguenze delle loro azioni sulla nostra repubblica”, afferma la lettera.

IL VOTO IN GEORGIA

Parole che hanno già innescato il dibattito oltreoceano, per di più in una delicata situazione politica. Trump continua a negare i risultati del voto del 3 novembre, soprattutto in vista della chiamata alla urne di domani, in Georgia, per i ballottaggi che definiranno il Senato e, dunque, le sorti dei primi due anni dell’amministrazione targata Biden. Non è un caso che i due siano impegnati in prima fila nel voto nello Stato del sud-est, con comizi attesi per oggi tra Atlanta (per il democratico) e Dalton (per il repubblicano). Ieri il Washington Post ha riportato di essere in possesso di una conversazione telefonica con cui Trump avrebbe chiesto al segretario di Stato della Georgia, Bran Raffensperger, di ricalcolare a suo favore i voti delle elezioni presidenziali.

IL CONTESTO

Il peso della competizione si fa sentire soprattutto al Pentagono. È per la Difesa che il team di transizione di Biden ha incontrato maggiori difficoltà a interagire con l’amministrazione uscente. All’indomani del voto del 3 novembre, il dipartimento non ha perso solo il segretario (Esper), ma anche due sottosegretari e il capo di gabinetto. Inoltre, nelle ultime settimane, diversi cambi all’interno dei board degli esperti indipendenti hanno segnato l’ingresso di diversi fedelissimi di Trump. Tutto questo ha favorito l’unione di intenti tra i dieci ex capi del Pentagono, uniti nell’invocare il rispetto della Costituzione.

IL RUOLO DEL CONGRESSO

Una voce a cui si è unito indirettamente il Congresso. Dopo la Camera, venerdì anche il Senato ha approvato nuovamente il Ndaa che autorizza le spese militari per il prossimo anno: 740,5 miliardi di dollari. Lo ha fatto con una maggioranza di due terzi, sufficiente a superare (per la prima volta su nove negli ultimi quattro anni) il veto posto da Donald Trump. A sorridere è stato soprattutto Biden, che ha accolto con probabile favore la convergenza tra democratici e repubblicani sul tema. Anche perché avrà bisogno della stessa convergenza in vista di un’altra battaglia parlamentare: quella per la deroga legislativa necessaria per Lloyd Austin, il generale da lui scelto per guidare il Pentagono. Non essendo passati i setti anni dal ritiro dal servizio attivo, dovrà superare un iter di conferma aggravato.

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