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Cosa (non) abbiamo imparato dalla Cina nel 2020. Scrive Pelaggi

Il 2021 si apre con la conferma del ruolo imprescindibile della Cina negli equilibri economici mondiali ma anche della necessità di riconoscere le sue condizioni, dalla mancata reciprocità alle continue violazioni dei diritti umani, per essere ammessi “al tavolo” di Pechino. Il commento di Stefano Pelaggi, docente presso l’Università di Roma La Sapienza

Il 2020 verrà indubbiamente ricordato come l’anno della peggiore pandemia del secolo e probabilmente come l’inizio di un nuovo percorso dell’economia. Ci sarà un prima e dopo Covid-19 per la finanza e i mercati. Il 2020 ha segnato un altro punto di non ritorno, è stato l’anno della proiezione assertiva della Repubblica popolare cinese in Occidente.

Fino allo scorso anno la rappresentazione della Cina correva su un doppio binario: quello di un Paese in via di sviluppo ancora ferito dal colonialismo occidentale degli scorsi secoli e l’immagine di una potenza economica in vertiginosa ascesa con capacità di sviluppo tecnologico immense.

Un attore internazionale che agiva in maniera sostanzialmente diversa rispetto agli altri stati, con parole d’ordine che andavano da win-win a “coesistenza pacifica” passando per “armoniosa convenienza” mentre i processi di penetrazione di Pechino nei Paesi in via di sviluppo, soprattutto africani, mostravano evidenti segni di un neocolonialismo tutto teso a conquistare le infrastrutture logistiche e le materie prime. Il presidente Xi Jinping a Davos nel 2017 si è mostrato come il paladino della globalizzazione e della circolazione delle merci mentre in Cina il principio di reciprocità veniva sistematicamente negato alle aziende straniere.

La Cina era quel complesso enigma, pieno di contrasti e cortocircuiti che la stampa occidentale aveva raccontato per decenni, anzi per secoli. Ogni articolo, libro o reportage dalla Cina immancabilmente citava quelle contraddizioni che sembravano parte integrante del Paese più popoloso al mondo che guidava i flussi economici globali mentre godeva dello status di paese in via di sviluppo. L’approccio era ancora legato all’illusione degli anni Ottanta e Novanta, quando si prefigurava e ipotizzava nella possibilità di una apertura liberale nel sistema politico cinese. Una speranza prima rimandata dal breve al medio termine poi definitivamente spazzata via dal nuovo approccio del Partito comunista cinese. Nel 2020 abbiamo assistito alla fine della Hong Kong che conoscevamo, quel luogo di incontro e sintesi tra Oriente e Occidente è stato cancellato da Pechino. Approfittando delle restrizioni personali legate alla prevenzione per il Covid-19 in pochi mesi il sistema rappresentativo, politico e istituzionale di Hong Kong è stato azzerato.

Nell’ultima edizione realizzata dell’Human Freedom Index del Cato Institute, pubblicato nel 2020 ma relativo al periodo 2018, Hong Kong era al primo posto in Asia e al terzo posto nella classifica mondiale dei Paesi con la maggiore libertà d’espressione. Nella seconda metà del 2020 abbiamo assistito all’adozione della nuova legislazione sulla sicurezza nazionale cinese e al sistematico uso di questo nuovo strumento. I principali leader delle proteste sono stati tutti imprigionati, alcuni condannati, i personaggi che avevano espresso la vicinanza al movimento pro democrazia sono stati portati in tribunale e gli adolescenti che protestavano nei cortili delle scuole sono stati arrestati.

Il volto più noto degli attivisti pro-democrazia, Joshua Wong, è stato condannato e incarcerato mentre l’editore e attivista democratico Jimmy Lai, proprietario di Apple Daily, è stato arrestato ed è in attesa di processo.

La classifica del prossimo report del Cato Institute sarà sicuramente diversa. Tuttavia, nessuno aveva ipotizzato una repressione sistematica ma soprattutto così repentina. Il nuovo anno inizia con i peggiori auspici: nelle scorse ore sono stati arrestati 53 esponenti dell’opposizione, accusati di aver violato la legge sulla sicurezza nazionale con l’organizzazione delle primarie per i candidati delle elezioni parlamentari nello scorso giugno. Si tratta della più grande operazione dall’entrata in vigore della legge sulla sicurezza nazionale. Il nodo cruciale è nell’accusa di sovversione per aver tentato di organizzare delle consultazioni interne, l’operazione condotta da più di mille uomini della polizia di Hong Kong ha definitivamente chiuso una fase delle relazioni tra l’Occidente e la Repubblica popolare cinese.

La dichiarazione dell’Unione europea di fronte agli arresti di Hong Kong, uno stentoreo “vengano liberati”, è quasi contestuale all’euforia con cui Bruxelles ha salutato il raggiungimento dell’accordo sugli investimenti con la Cina pochi giorni fa. Un accordo tutt’altro che entusiasmante per l’Europa, che di fronte alle draconiane leggi e alla sistematica repressione nell’ex colonia britannica appare ancora più fallimentare. La posizione italiana è persino peggiore, la mancata presenza del premier Giuseppe Conte alla videoconferenza di Angela Merkel ed Emmanuel Macron con Xi Jinping è chiaramente legata alla firma italiana del Memorandum d’intesa sulla Via della Seta. Ossia ci siamo trovati estromessi dall’accordo siglato a Bruxelles perché troppo vicini alle posizioni di Pechino.

Il 2021 si apre con la conferma del ruolo imprescindibile della Repubblica popolare cinese negli equilibri economici mondiali e sulla necessaria accettazione delle condizioni cinesi, dalla mancata reciprocità in campo finanziario alla tacita approvazione delle continue violazioni dei diritti umani, per essere ammessi “al tavolo” di Pechino.


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