È uno dei giorni più bui della democrazia americana, ma anche una sconfitta su tutti i fronti per Donald Trump. La sommossa a Capitol Hill suggella una giornata rovinosa per il Tycoon, che ora è in balia del Congresso e di Mike Pence. L’analisi di Giampiero Gramaglia
È di quattro morti, fra cui una donna, 13 feriti e 52 arresti il bilancio – provvisorio – degli incidenti di ieri a Washington, dove centinaia di sostenitori di Donald Trump, aizzati dal magnate presidente che non accetta la sua sconfitta nel voto del 3 novembre, hanno preso d’assalto il Congresso, costringendo a sospendere la ratifica dei risultati delle presidenziali, con la vittoria di Joe Biden.
Per molti commentatori, è stato “terrorismo domestico”. Biden dice: “Questa non è una protesta, è una insurrezione”.
È probabile che il bilancio, specie degli arrestati, si aggravi nelle prossime ore. La donna uccisa, Ashli Babbit, veterana dell’aeronautica, veniva da San Diego in California: è stata raggiunta da colpi sparati con l’arma di servizio da un agente in uniforme della polizia del Campidoglio – un’inchiesta è in corso, ha detto il capo della polizia di Washington. Gli altri decessi sono avvenuti per emergenze e complicazioni mediche, durante le proteste.
Degli arresti, 26 sono stati effettuati sul Campidoglio. Molti manifestanti pro-Trump sono stati fermati per violazione del coprifuoco, che è stato decretato a Washington e nel Nord della Virginia, in particolare ad Arlington e ad Alexandria.
A tarda sera, ora di Washington, la sessione plenaria del Congresso è ripresa. Il Senato e la Camera hanno separatamente respinto la mozione di alcuni senatori e deputati repubblicani di contestazione dei voti del Collegio elettorale dell’Arizona: al Senato 93 no e 6 sì – meno della metà di quelli che erano previsti, prima della sommossa; alla Camera, invece, 309 no e ben 122 sì, tutti repubblicani (su 211), di poco al di sotto dei 140 previsti.
In sessione plenaria, il Congresso ha poi ripreso la ratifica dei voti del Collegio elettorale Stato per Stato, fino a quelli della Pennsylvania, messi pure in discussione. Dopo dibattitti separati, Senato e Camera hanno di nuovo respinto la contestazione, con analoghe maggioranze. A questo punto, quando in Italia era già mattina avanzata, il Congresso ha aggiornato i suoi lavori.
Nelle ultime ore, ci sono state numerose dimissioni nell’Amministrazione Trump: uomini e donne critici dell’atteggiamento del presidente, che, anche quando ha tardivamente detto ai suoi sostenitori di andare a casa, ha insistito “Questo è quello che succede quando rubate le elezioni”. Lo stato d’emergenza a Washington durerà fino al 21 gennaio, il giorno dopo l’insediamento di Biden.
Twitter e altri social hanno bloccato l’account del magnate per i suoi post incendiari. E c’è chi evoca, o invoca, il ricorso all’articolo 25 della Costituzione, che prevede che il vice-presidente sostituisca il presidente quando questi non è in grado di svolgere il proprio compito. Altri parlano d’impeachment, ma ne mancano i tempi.
È stato il giorno più nero della democrazia americana: un giorno nero innescato da un presidente che non avrebbe mai dovuto essere scelto e che non accetta di andarsene dopo essere stato bocciato, nelle elezioni del 3 novembre, nel voto popolare – 80 milioni di suffragi a Biden, 74 a lui – e nel meccanismo costituzionale dei Grandi Elettori – 306 per Biden e 234 per lui.
Trump è il grande perdente di una giornata il cui bilancio è tragico: fa perdere al suo partito i ballottaggi in Georgia e la maggioranza in Senato, dopo avere perso la Casa Bianca; e perde tutta la credibilità che gli resta, se gliene resta, e se ne ha mai avuta, arringando a suon di falsità la banda di facinorosi suoi sostenitori ‘convocati’ a Washington perché si facciano sentire.
E loro eseguono l’ordine del loro ‘comandante in capo’. Lo scenario è da guerra civile: la capitale dell’Unione blindata da polizia e guardia nazionale e centinaia, non più di migliaia, di ‘trumpiani’ che aizzati dal presidente assediano il Campidoglio, gli danno l’assalto e vi si introducono, alcuni armati, costringendo i funzionari ad evacuare due edifici e i parlamentari a sospendere i lavori. Ci sono transenne divelte, vetri infranti, muri scalati; e, dentro l’edificio, le maschere anti-gas sostituiscono le mascherine anti-Covid per l’uso dei lacrimogeni.
Il tutto sventolando bandiere suprematiste e con richiami allo schiavismo e rivendicando il diritto alle armi.
Le immagini televisive mostrano agenti dell’Fbi con le pistole in pugno nelle aule di Senato e Camera, energumeni che si siedono sugli scranni dei presidenti dei due rami del Congresso, comitive che percorrono come vandali i corridoi del Campidoglio e persone fatte distendere a terra con le mani sopra la testa.
Fatti senza precedenti a Washington. Il presidente eletto Biden denuncia il presidente uscente per avere infiammato gli animi dei suoi sostenitori con ripetute false affermazioni sulle “elezioni rubate” e parla di minaccia inaudita alla democrazia americana. E i media contestano l’inazione del presidente, che, dopo avere fomentato i suoi fan, si limita a un appello perché rispettino la polizia e le forze dell’ordine, che “sono dalla nostra parte”.
Poi, finalmente Trump compare in televisione, dopo che Biden quasi gli ha ingiunto di farlo: “Andate a casa”, dice, insistendo, però, che le elezioni gli sono state rubate e criticando il suo vice Mike Pence, che non lo ha ‘difeso’.
A Washington giungono rinforzi dalla Virginia e dallo Stato di New York, oltre ai 340 militari della Guardia Nazionale che già affiancano la Metropolitan Police per mantenere l’ordine, dopo tafferugli la notte tra martedì e mercoledì vicino alla Casa Bianca. Molte vie sono bloccate con mezzi pesanti, i controlli sono stringenti. Ma i manifestanti, spinti dalle parole incendiarie di Trump, premono all’ingresso dell’edificio del Congresso.
Eppure, la democrazia americana stava riuscendo a celebrare i suoi riti: la Georgia aveva appena consegnato il controllo del Senato ai democratici, che vincono entrambi i ballottaggi – l’esito sarà presto ufficiale -; e il Congresso si preparava a formalizzare il successo di Biden nelle presidenziali, riconoscendogli il diritto d’insediarsi alla Casa Bianca il 20 gennaio. Per almeno due anni, Biden potrà governare con l’appoggio di tutto il Congresso e trasformare le promesse in decisioni.
Il magnate presidente, che vuole sempre vincere, si trova cucita addosso l’etichetta di ‘looser’, perdente. Ma Trump non s’arrende né al diritto né all’evidenza: rilancia accuse di brogli e truffe, sempre senza lo straccio d’una prova; e arringa i suoi fan all’Ellipse, a sud della Casa Bianca, al raduno ‘Save America’.
Ai suoi sostenitori, che non sono una folla oceanica, Donald il perdente propina l’ultima fake news: “Se Mike Pence fa la cosa giusta, vinciamo le elezioni”, mettendo pressione sul suo vice perché ribalti nella plenaria del Congresso il risultato del voto. E bolla come “deboli” i repubblicani che intendono certificare la vittoria di Biden.
Pence presiede la riunione congiunta di Camera e Senato, che deve prendere atto del voto espresso il 14 dicembre dal Collegio elettorale: 306 per Biden e 232 per Trump. “Gli Stati – dice il magnate – vogliono correggere i loro suffragi che sanno essere basati su irregolarità e frodi. Tutto quello che Mike deve fare è rinviarli agli Stati, così VINCEREMO. Fallo Mike, è l’ora dell’estremo coraggio”. Ma Pence mette per iscritto di non avere il potere di farlo.
Le possibilità di un colpo di mano istituzionale riposa sull’iniziativa di una dozzina di senatori, guidati dall’ex aspirante alla nomination Ted Cruz, e di decine di deputati repubblicani che contestano, nella plenaria del Congresso, i voti nei sei Stati più contesi, quelli dove Trump ha invano presentato ricorsi, tutti respinti fino alla Corte Suprema. Si comincia, in ordine alfabetico, dall’Arizona: quando viene annunciata la prima contestazione, l’applauso che l’accompagna dà una misura del sostegno alla mossa, largo, ma non maggioritario.
La procedura prevede che, se almeno un deputato e un senatore sollevano obiezioni ai voti espressi dal Collegio elettorale, il Congresso interrompa la plenaria e le due camere ne discutano separatamente per un massimo di due ore e poi votino.
Per ribaltare il risultato dei Grandi Elettori occorre il consenso di entrambi i rami del Congresso e, dato che i democratici sono comunque maggioranza alla Camera, a prescindere dai risultati della Georgia, ogni contestazione sembra destinata al fallimento, ma creerà confusione e ritardi. In un discorso carico di emotività, il leader dei repubblicani in Senato Mitch McConnell prende le distanze dalla contestazione dei risultati: “Rovesciare l’esito del voto spingerebbe la nostra democrazia in una spirale mortale”.
Poi, l’attacco dei ‘trumpiani’, la sospensione dei lavori, i voti sull’Arizona, la ripresa, di nuovo l’intoppo sulla Pennsylvania, le discussioni, i voti, l’aggiornamento. La vittoria della democrazia è rinviata, speriamo solo di qualche ora.