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Dentro o fuori. Il bivio di Biden (e della Nato) in Afghanistan

Di Simone Nella

Negoziati saltati, basi militari che chiudono, un crescendo di attacchi. È un lascito pesantissimo quello ereditato da Joe Biden in Afghanistan. Ecco dove può far leva per riportare i Talebani al tavolo. L’analisi di Simone Nella, analista militare, già consigliere politico e culturale del Vice comandante di Resolute Support in Kabul

L’amministrazione di Joe Biden ha affermato che rivedrà l’accordo di pace che l’ex presidente Donald J. Trump ha stipulato con i talebani e vuole assicurarsi che il gruppo militante afghano sia “all’altezza dei suoi impegni”, compresa la riduzione della violenza e il taglio dei legami con i terroristi.

I crescenti attacchi quotidiani dei talebani in Afghanistan dimostrano che la situazione della sicurezza continua ad essere critica nonostante l’accordo Usa-talebani firmato il 29 febbraio 2020 e le trattative intra-afghane iniziate lo scorso settembre. Sebbene Kabul abbia rilasciato 5.100 prigionieri talebani e gli Stati Uniti abbiano ridotto il proprio personale militare a 2.500 unità il 15 gennaio scorso, solo nei mesi scorsi si sono registrati attacchi da parte dei talebani in oltre 23 province, con un aumento di oltre il 70% rispetto allo stesso periodo del 2019. In questo contesto, un cessate il fuoco sembrerebbe essere lontano dal raggiungerlo.

Sotto il mandato di Trump gli Stati Uniti come condizione per l’esito dei negoziati riguardanti il ​​ritiro di tutte le truppe statunitensi nel maggio 2021 hanno posto come garanzia che l’Afghanistan non diventasse di nuovo un santuario per al Qaeda o di qualsiasi altro gruppo terroristico che potrebbe rappresentare una minaccia per gli Stati Uniti e i loro alleati. D’altra parte, i colloqui tra il governo afghano ei talebani sono volti a porre fine alle ostilità e raggiungere un cessate il fuoco permanente.

Come riportato da informazioni open-source, 133 distretti sono sotto il controllo del governo afgano, 75 nelle mani dei talebani e 187 sono contestati. Un dato che solleva una discussione seria riguardo il futuro dell’Afghanistan sulle questioni dei diritti costituzionali e sul ruolo delle donne nella società.

Un punto critico dei colloqui di pace intra-afghani è la richiesta dei talebani di interpretare i testi religiosi secondo la Hanafi fiqh (giurisprudenza della scuola islamico sunnita Hanafita). Questa clausola significa essenzialmente che ogni volta che le due parti sono in disaccordo su questioni sostanziali verrà fatto riferimento alla scuola di giurisprudenza Hanafita per risolvere le controversie. Ciò limiterà chiaramente il governo mentre negozia sulle principali questioni sociali, comprese le implicazioni per le minoranze, il ruolo delle donne, i diritti dei cittadini e le responsabilità del governo così come altre questioni importanti.

In questo modo i talebani vogliono portare l’Hanafi fiqh non solo come fonte eminente del diritto, ma anche alla base di tutte le discussioni politiche. Stesso problema circa la dimensione interna afghana su ogni soluzione negoziata, la premessa di base è che debba esserci una qualche forma di condivisione del potere e quale forma assumerà è forse la domanda più difficile per i negoziatori afgani.

Nel frattempo l’ex amministrazione Trump ha chiuso almeno 10 basi in tutto l’Afghanistan dalla firma dell’accordo con i talebani e la missione militare  “Resolute Support” della Nato ha circa 15.000 truppe provenienti da 38 paesi alleati della Nato e nazioni partner per l’addestramento delle forze di armate afghane e l’Italia ne rappresenta il quarto maggiore contributore. La Nato si è anche impegnata a fornire finanziamenti fino al 2024.

Il prossimo febbraio si terrà a Bruxelles il summit dei Ministri della Difesa Nato e sarà il primo banco di prova dell’amministrazione di Biden in politica estera. Sul tavolo la posta è se rimanere o lasciare il Paese, e qualsiasi decisione avrà un impatto duraturo sul futuro dell’Afghanistan e sulla stessa credibilità della Nato.



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