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Trump, i social e la rabbia anti establishment. Tanto tuonò che piovve

Di Pietro Paganini e Raffaello Morelli

Le profonde e rapide trasformazioni che hanno accompagnato il processo di globalizzazione e di digitalizzazione delle società hanno risolto molti problemi, però hanno trascurato e penalizzato tanti cittadini, invece di premiarli. Invece di includerli nei processi decisionali e nella soluzione dei problemi, hanno di fatto consentito alle classi dominanti di escluderli. Il commento di Pietro Paganini e Raffaello Morelli, Competere

Per Socrate, progenitore del metodo scientifico, la frase “tanto tuonò che piovve” indica il verificarsi di qualcosa di prevedibile. Il prevedibile non si limita a quello che il conformismo vuol vedere rimuovendo i disagi anche psicologici. La frustrazione di chi ha assaltato il Campidoglio a Washington DC era prevedibile; la rabbia di chi imbratta e abbatte le statue del passato era prevedibile.

Possiamo facilmente prevedere che se non si darà ascolto al malcontento dei cittadini (i tuoni), il rifiuto dello status quo rappresentato dalle grandi burocrazie e dall’establishment finanziario e mediatico sarà ancora più radicale (la pioggia e poi l’uragano). Non ci possiamo lamentare della pioggia se non ci curiamo dei tuoni.

Le profonde e rapide trasformazioni che hanno accompagnato il processo di globalizzazione e di digitalizzazione delle società hanno risolto molti problemi, però hanno trascurato di aver anche sollevato altre questioni molto complesse che – in molti casi – hanno penalizzato tanti cittadini, invece di premiarli.

Piuttosto che includerli nei processi decisionali e quindi nella soluzione dei problemi, hanno di fatto consentito alle classi dominanti di escluderli.

La ragione non va cercata nella pulsione per il potere delle classi dominanti. Queste infatti, hanno ritenuto più agevole sfruttare la propria posizione di dominio intellettuale e finanziario per sbrigare la questione più velocemente, evitando di affrontare le complessità di un coinvolgimento più ampio dei cittadini.

Sarebbe costato più fatica intellettuale e avrebbe preso molto più tempo. Sarebbe stato anche difficile da raccontare con la narrazione evocativa e positiva tipica dei modelli antichi, religiosi ed ideologici. Le competenze esistenti nei mondi delle élite si sono trasformate nell’illusione presuntuosa di saper cosa fare senza bisogno dei cittadini. La disattenzione al cittadino ha dilagato nei governi e nei vertici burocratici.

Continuò a tuonare e alla fine è scesa la pioggia. In molti Paesi dell’Occidente il rigetto verso il potere costituito da parte delle opinioni pubbliche, alle elezioni ha gonfiato i gruppi politici sovranisti e cosiddetti populisti. È avvenuto in poco tempo nei Paesi europei, negli Usa, in Inghilterra, in Italia. Si è materializzata la disaffezione alla democrazia liberale, valutata incapace di svolgere il proprio ruolo. Che è valorizzare scelte ed esigenze del cittadino, tramite l’aggiornare di continuo i meccanismi liberaldemocratici.

Di fatto le élite hanno tradito la liberaldemocrazia, confondendola con l’assenza di regole o meglio la presenza di regole (quelle delle elites stesse) che favoriscono solo alcuni ed escludono gli altri.

Il richiamo al cambiamento e alla centralità del cittadino individuo dai parte dei sovranisti e populisti è però, purtroppo, ambiguo. Essi infatti, rifiutano la liberaldemocrazia, rifuggendola. Non comprendendo che è attraverso la società aperta che il cittadino riacquista il potere di autodeterminarsi.

Il sovranismo compie il medesimo errore, preferendo all’élite dominante il ricorso all’uomo forte destinato a risolvere problemi complessi. Il populismo poi, specie l’italiano, vorrebbe cambiare ma pensa che per farlo basti evocare i cittadini, dichiarare uguali le diversità fisiologiche, smantellare la democrazia rappresentativa
Anche questi approcci, come quello elitario e burocratico, si sono dimostrati il primo disastroso, il secondo capace di bloccare il burocraticismo dei dominanti ma non di costruire una società aperta.

I fatti e l’esperienza di questi anni e giorni dovrebbero spingerci al faticoso lavoro quotidiano di coinvolgere il cittadino nelle soluzioni che saranno lente e complesse. Richiederanno la pazienza di chi sa passare attraverso il fallimento che fa parte del metodo sperimentale della prova ed errore. Prendiamo però nota che così non si sta verificando.

I social media e le aziende del digitale bloccano il presidente americano, tradendo il metodo liberale con argomenti che usano i termini del liberalismo ma che in realtà gli sono antitetici.

L’assunto base del metodo liberale è la diversità di ognuno dei cittadini e disporre di regole adatte per consentire il libero conflitto tra le loro iniziative sulla scorta dei risultati.

Diversità e conflitto presuppongono che ogni punto di vista venga liberamente espresso e sperimentato secondo le regole della libertà frutto delle scelte dei cittadini per mezzo della democrazia rappresentativa. Senza tale presupposto, non esiste l’istituzione liberaldemocratica.

Non hanno alcuno spessore, né liberale né logico, le giustificazioni che danno i fautori della censura.

Il primo argomento è che togliere i social a Trump protegge la libertà. Dire ciò, mostra che si continua a non capire cosa sia la democrazia liberale. Non è una verità, è un metodo di libero confronto sui fatti seguendo le regole (Voltaire diceva, non condivido quello che dici ma difenderò con la mia vita il tuo diritto di dirlo). È un sistema per sperimentare se funziona una proposta sul come convivere tra individui diversi.

Il secondo argomento è che togliere i social a Trump sconfigge le tesi dell’estrema destra identitaria. Dire ciò, mostra che si continua a non capire cosa sia la democrazia liberale. Non è una guerra (in cui ogni mezzo è lecito), è un conflitto secondo regole democratiche misurato dal grado di libertà assicurato al cittadino.

Violare il metro delle regole sconfigge il metodo liberale in partenza. È uno sproposito citare Popper (“La tolleranza illimitata porta alla scomparsa della tolleranza”) perché quel grande liberale affermava che non sempre è possibile la tolleranza e che occorre anche il duro conflitto contro gli illiberali (Locke, primo teorizzatore della tolleranza a fine 1600 , aveva già condannato la Chiesa che non la praticava), un duro conflitto sempre coerente nel rispetto del metodo della libertà.

Dopo due o tre giorni di ubriacatura, cresce il numero di coloro che ha definito incompatibile con la liberaldemocrazia l’aver tolto al presidente Trump l’accesso ai social. Tali sistemi hanno ormai una funzione di servizio pubblico, e restringere un sevizio pubblico non può essere delegato al privato che lo gestisce (un mero gruppo di potere).

La decisione di togliere a Trump lo strumento per diffondere quello che pensa, è il più pericoloso attentato alla liberaldemocrazia dai tempi del nazismo e del comunismo staliniano.

Questo uragano sulla democrazia liberale è una riprova ulteriore dell’urgenza di manutenerla. Non perché sia superata, come scioccamente affermano certi non liberali. Perché, essendo un metodo di rapportarsi tra individui diversi e viventi, è fisiologico che di continuo si presentino nuovi nodi da sciogliere, che sollecitano l’aggiustamento del meccanismo.

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