Mentre il governo prova ad allungare inutilmente la propria agonia, la discussione sulle tanto necessarie riforme strutturali appare, tanto chiaramente quanto drammaticamente, un sogno irrealizzabile. Il commento del direttore del Center for Business in Society, Iese Business School

Non è facile di questi tempi provare ad immaginare il futuro dell’Italia. È cosa dura e triste. Mentre il governo prova ad allungare inutilmente la propria agonia, la discussione sulle tanto necessarie riforme strutturali appare, tanto chiaramente quanto drammaticamente, un sogno irrealizzabile. Ma non è certo una questione dei politicanti di questi tempi.

Un collega economista mi raccontava che già nella prima metà degli anni novanta del secolo scorso il problema delle pensioni italiane era ben chiaro nei circoli scientifici internazionali. Che l’Italia non investisse seriamente in innovazione lo studiai in Carnegie Mellon quindici anni fa. Che il sistema educativo e quello universitario italiano sono in crisi l’ho sentito ripetere ai tempi del liceo.

Mi domando spesso quanto questo fenomeno collettivo di slippery slope – in cui ogni anno un paese di 61 milioni di abitanti accetta di vivere con standard economici, sociali e morali peggiori di quello precedente – andrà avanti.
La letteratura scientifica ci racconta purtroppo che fermare questi fenomeni, sia a livello individuale che collettivo, non è cosa facile.

In molti casi il sistema scivola inesorabilmente sino ad un punto di esplosione causato dalla non sostenibilità del sistema; in altri, la salvezza sopraggiunge grazie all’intervento di istituzioni di controllo esterne al sistema stesso.
Mi auguro che il declino dell’Italia non sia fermato dal raggiungimento del capolinea, dubito che l’Unione Europea o altre Istituzioni Straniere abbiano l’interesse e le capacità oggettive di azionare il freno di emergenza per trascinarci verso traiettorie socialmente più costruttive.

Come si può ottenere allora la tanto necessaria inversione di rotta? Una speranza può venire dalle iniziative di innovazione culturale che stanno emergendo in tutto il paese. Sono tanti quelli che puntano sulla cultura e sull’educazione, provando ad arricchire, con tanta fatica, il patrimonio nazionale. A guardar bene sono tantissimi gli sforzi in questa direzione. Possiamo contare su decine e decine di fondazioni apolitiche e apartitiche, ma ci sono anche tantissime iniziative individuali davvero meritorie, come quella di un prestigioso economista, “un cervello in fuga”, con fior di cattedra americana, che ha creato un canale Youtube per arginare l’incultura diffusa su temi economico sociali.

Credo che il contributo di questi cosiddetti “imprenditori culturali” sia sottovalutato. Negli ultimi venti anni la ricerca scientifica, sia sociologica che economica, ha dimostrato l’importanza strategica dell’innovazione culturale per portare avanti il necessario cambiamento istituzionale. Forse è davvero questo il punto di partenza, seppur difficile, quasi un arrocco impensabile per rilanciare la crescita socio-economica italiana. Vorrei usare quanto rimane di questo spazio per descrivere brevemente un caso eccezionale di imprenditorialità ed innovazione culturale.

È la storia di un centro culturale indipendente, Farm Cultural Park, nato in una periferia delle periferie d’Europa, la città di Favara (provincia di Agrigento), sino a poco tempo fa completamente sconosciuta. Il 23 gennaio del 2010 a Favara una ragazza di 14 ed una bimba di 4 anni morirono a causa del crollo di una palazzina fatiscente del centro storico. Si trattò di una tragedia che palesava la situazione della cittadina, caratterizzata da uno dei redditi medi pro-capite più bassi d’Italia.

Esattamente 11 anni dopo la Farm Cultural Park è una realtà capace di attrarre 100.000 turisti l’anno, provenienti da tutto il mondo, grazie ad un’agenda culturale internazionale di tutto rispetto. Che sia chiaro: lo sforzo della Farm non è focalizzato solo sul turismo, al contrario, una parte rilevante delle energie sono focalizzate sulla popolazione locale. Vorrei citare per esempio Sou, la scuola di architettura per bambini che mette in contatto i più giovani con la filosofia e logica della costruzione del bello, oppure Prime Minister, la scuola di politica per giovani donne dai 13 ai 19 anni che propone decine di appuntamenti per l’empowerment femminile.

Un altro aspetto che vale la pena sottolineare è il cosiddetto lavoro di “bridging”, letteralmente far ponte. La Farm ha oramai una consolidata collaborazione con le più prestigiose istituzioni culturali di tutti e cinque i continenti, quali il museo britannico New Art Exchange di Nottingham, il centro culturale di Macau, Albergue 1601 o la Biennale di Venezia.

In questo modo la nostra fantastica fondazione riesce a portare in casa il meglio dell’offerta culturale internazionale e a garantire la presenza culturale italiana all’estero. Negli ultimi anni le attività della Farm Cultural Park sono state presentate a Washington, Pittsburgh e Detroit su invito del Dipartimento di Stato Americano, al Dublin Global Platform, su suggerimento dell’Unione Europea, a Meishan in Cina grazie all’interessamento dell’Unesco e ad Abu Dhabi in occasione del World Urban Forum 10 su richiesta delle Nazioni Unite.

So bene che l’esercito dei pessimisti d’Italia mi aspetta al varco con la fatidica domanda: “ma a parte queste iniziative culturali è cambiato qualcosa in quel di Favara?” La più semplice delle risposte si focalizzerebbe sul centinaio di iniziative imprenditoriali nate proprio dal rinnovamento socio-economico attivato dalla Farm. Non solo i tanto diffusi B&B, ma anche un museo, piccole società di servizi, una rinnovata produzione artigianale, etc.

Ma la cosa più importante è la dimostrazione continua, in un territorio piagato dal pessimismo cronico, che le opportunità nel nostro Paese non mancano e che il declino può essere contrastato efficacemente con tre strumenti: cultura, capacità e voglia di fare.

Condividi tramite