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L’eredità del Pci. Gennaro Acquaviva e i 100 anni dalla scissione di Livorno

Di Gennaro Acquaviva

A un secolo dalla scissione che cambiò le sorti della sinistra italiana, l’ex senatore socialista Gennaro Acquaviva ricostruisce il rapporto tra Pci e Psi e si chiede se quel giorno a Livorno la storia avrebbe potuto prendere una strada diversa da quella che abbiamo vissuto, “deleteria e maledetta per tutte le forze di progresso del nostro popolo?”

La ricorrenza centenaria dell’evento scissionistico che avvenne nel corso del congresso del Psi di Livorno del gennaio del 1921 ha messo in campo molte visioni, molti giudizi, molte elucubrazioni. La sottolineatura prevalente è andata anche inevitabilmente a incidere sul giudizio della vicenda successiva: cioè sulla storia del Pci fino allo scioglimento del 1989 e alle diverse forme con cui l’esperienza comunista e gli uomini dell’ex Pci hanno operato dopo Tangentopoli. Soprattutto si è parlato della “positività” e “negatività” della storia comunista spesso enfatizzando la prima e quasi dimenticando la seconda. Io sono tra coloro che hanno costantemente visto il “bene” e il “male” del comunismo italiano indistinguibili, come se la sua storia pur positiva fosse superata e di fatto annullata dalla sua profonda negatività.

Provo a sostenere questa mia antica convinzione utilizzando un concetto indicato da Bettino Craxi nel suo primo intervento alla Camera dei Deputati da segretario del Psi appena eletto. Era il 10 agosto 1976 e l’occasione fu il dibattito sulla fiducia di un Governo Andreotti un po’ speciale, giacché si trattava, per la prima volta dopo il 1947, di varare un governo in cui i voti dei comunisti tornavano a contare nella maggioranza che lo sosteneva.

Craxi era allora un giovanotto di poco più di 40 anni, utilizzato da una classe dirigente frastornata come un provvisorio tappabuchi al vertice di un partito in crisi profonda, giudicato dall’opinione largamente prevalente sulla via dell’estinzione. Questo soprattutto perché il suo concorrente – appunto lo scissionista nato a Livorno più di cinquant’anni prima – aveva chiaramente vinto la partita della rappresentanza, giacché aveva raggiunto il 34 per cento dei voti alle elezioni politiche appena celebrate, mentre i socialisti si erano ridotti ad un misero 9,6 per cento.

Disse allora Craxi: “Consideriamo il partito comunista per quello che è e che ha saputo essere: un partito cioè che rappresenta una parte importante del popolo lavoratore. E lo giudichiamo anche secondo il suo contributo alla vita democratica del nostro paese. Siamo interessati a che il processo avviato si sviluppi coerentemente e riteniamo che, se ciò avverrà, si determineranno sempre maggiori fattori di novità positiva non solo in Italia, ma in molti paesi europei e nell’insieme dell’Europa occidentale”.

E proseguì: “Certo, sono anch’io del parere, espresso anche recentemente dal compagno De Martino, che occorrerà del tempo, dopo che la revisione sarà stata condotta alle sue conseguenze sul piano dei princìpi, prima che possa modificarsi la natura storica del partito comunista, sì da risultare adeguata ai nuovi princìpi che esso professa. E tuttavia, ragionando con mente aperta e critica di fronte ai fatti della storia, è giusto attenersi alla semplice verità per la quale la violenza genera la violenza e non la libertà, il terrore è il terrore e non una via per la giustizia, ma altresì il buon uso della libertà genera la libertà, e la democrazia, quando si radica negli animi e nel costume, genera la democrazia”.

Noi oggi sappiamo come è finito questo forte auspicio, questa mano tesa dell’anticomunista Craxi, fraterna e disponibile, verso il Pci di Berlinguer. Due anni dopo, nel 1978, la tragedia dei 55 giorni di Moro e la sua morte, certificarono l’impotenza, o l’impossibilità, per il comunismo all’italiana a svincolarsi dalla sua natura profonda ed evidentemente immodificabile: nei legami non detti, nelle paure nascoste, nell’ipocrisia dei comportamenti concreti, nella inevitabile consequenzialità fallimentare di quella soluzione – il Compromesso storico – inventata e costruita dal compagno Berlinguer e dai suoi sodali decisivi, e cioè i cattocomunisti a partire da Rodano.

Che si trattasse per la dirigenza comunista di una convinzione profonda, di una filosofia immodificabile, di una realtà che presupponeva impunibilità “eterne” è infatti visibile ancora oggi nei comportamenti di quel “ceto post-comunista”, che continua a pesare e condiziona tuttora la nostra pessima politica, ma anche la cultura e l’informazione del sistema Italia.

Ed è su questa frangia minoritaria ma decisiva della classe dirigente ex-Pci, quella ispirata dal cattocomunismo, e che allora dimostrò di essere determinante nei confronti della possibile evoluzione positiva del comunismo nostrano verso la democrazia ed il riformismo socialista e liberale, che mi permetto di proporre un mio ricordo diretto a cui aggiungo una considerazione finale.

Alla fine del decennio degli anni Sessanta del secolo del secolo scorso, le Acli – il grande movimento socialcristiano inventato da Montini e da Pastore nel 1944 – non ne possono più della politica della Dc. Sono una straordinaria organizzazione sociale, sono forti, ramificate sul territorio nazionale: ma questa grande opera ormai non corrisponde più in nulla con la Dc così com’è diventata dopo il fallimento del primo centro-sinistra; non ne possono più dell’unità politica dei cattolici, del vincolo di ferro che da trent’anni è anche sulle loro spalle. Decidono di rompere.

Al Congresso di Torino del 1969, d’accordo con Donat Cattin e Carniti, proclamano voto libero e niente più collateralismo con la Dc. Labor lascia la presidenza e l’anno dopo, fa un partito, il partito della sinistra sociale cattolica. Questo progetto viene attaccato duramente dal Papa in prima persona. Montini leva il suo manto protettivo dalle Acli che aveva fondato nel ‘44; condanna la “dirigenza”, leva gli assistenti, leva la sede, leva i quattrini. Insomma: una tranvata definitiva che fa scappare tutti, da Donat Cattin ai finanziatori dell’operazione. Il povero Labor sta in mezzo alla strada, ma pensa ancora, giustamente, che ha ragione e che ha ancora con sé un grande movimento. Fa un giro di consultazioni riservate e chiede: “Che devo fare? Mi devo ritirare, vado avanti?”.

Lui è il rappresentante non di un’operazione costruita con e per minoranze elitarie, del tipo che poi tutti noi avremmo conosciuto bene: per intenderci, quelle che si fecero con gli “indipendenti di sinistra” dopo il 1974. Lui è il promotore di una scissione della sinistra del mondo cattolico di base, con migliaia di militanti e di quadri formati ed appassionati, che sono quelli dello storico cattolicesimo sociale, nato per rifondare la politica, che vedono avviata al fallimento; per questo vogliono contribuire a rifondarla, per cambiare il sistema bloccato, per fare l’alternativa a partire da ciò che allora noi chiamavamo “ristrutturazione della sinistra”.

Naturalmente Labor nel suo giro va anche da Berlinguer. E Berlinguer che gli dice? “Torna nella Democrazia cristiana”. Glielo dice secco secco: “Torna nella Dc”. Non sto raccontando una balla. Se voi prendete Tatò e andate a pagina 20 del suo libro (Caro Berlinguer. Note e appunti riservati di Antonio Tatò a Enrico Berlinguer, Einaudi, 2003), troverete le premesse della frase di Berlinguer, scritte chiaramente in concomitanza con l’incontro tra i due.

Questa è stata l’idea centrale e vera, ma minoritaria e succube in partenza, ambiguamente impronunciabile ma alla fine vincente, pensata e attuata da quello che fu il gruppo dirigente del Pci di Berlinguer negli anni della sua grande forza politica ed elettorale; essa era però troppo dipendente da volontà terze ed esterne (il potere insediato in Italia, come l’interesse prevalente delle potenze mondiali, sovietiche e/o americane) che impedì ai comunisti di essere se stessi, e cioè quello che erano diventati in quella fase storica e cioè dei socialisti riformisti nella volontà di finalmente cambiare.

Questa è la tragedia che tutti noi “vecchietti” e appassionati di politica abbiamo vissuto sulla nostra pelle, per molti dei sessant’anni di democrazia, incompleta ed incompiuta, che abbiamo potuto vivere.

Poteva avere Livorno un altro esito rispetto a questo che abbiamo drammaticamente vissuto, deleterio e maledetto per tutte le forze di progresso del nostro popolo? Penso proprio di no. Come continuava a ripetere a noi giovani apprendisti fino alla fine il vecchio Nenni: “il fiume risponde alla sorgente”. Non c’è niente da fare. Vale per i cattolici. Vale soprattutto per i comunisti.


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