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Libertà di espressione del pensiero e ruolo di civil servant: il “caso” D’Ambrosio

La vicenda che vede protagonista Alfonso D’Ambrosio, dirigente scolastico dell’Istituto Comprensivo di Lozzo Atestino, Cinto Euganeo e Vo’, porta alla luce la spinosa questione della libertà di espressione del pubblico dipendente. Come noto, D’Ambrosio dovrà comparire il prossimo 26 gennaio innanzi L’Ufficio scolastico regionale del Veneto dopo che la direttrice dell’Ufficio procedimenti disciplinari ha mosso contestazioni circa talune espressioni critiche verso le posizioni della Ministra dell’istruzione, Lucia Azzolina, contenute nei post del profilo Facebook del dirigente. D’Ambrosio si è affidato, per la difesa, dicono i giornali, all’Associazione nazionale presidi, mentre alcuni parlamentari hanno espresso la loro solidarietà, presentando interrogazioni parlamentari. Il tema è assai rilevante e porta a domandarsi, inevitabilmente, se e come un dipendente pubblico – un dirigente, in questo caso – possa formulare critiche pubbliche circa l’operato dell’amministrazione presso cui presta servizio e/o nei confronti dell’autorità politica di riferimento e, più in generale, nei confronti del Governo. Diciamo subito che D’Ambrosio ha un curriculum di tutto rispetto e che la sua storia personale testimonia l’affetto e la passione per il proprio mestiere, come ricorda Riccardo Bonacina su Vita: come collega, a D’Ambrosio va la mia vicinanza personale. Occorre, tuttavia, capire se, alla luce delle norme vigenti in materia di comportamento dei dipendenti pubblici, quanto espresso da D’Ambrosio possa o meno configurare, come evidenziato dal Ministero, una violazione del principio di leale collaborazione e del Codice di comportamento dei pubblici dipendenti.

È necessario, innanzi tutto, partire dal quadro costituzionale di riferimento: in primis l’art. 21 della Costituzione che chiaramente statuisce che “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”(la Corte costituzionale in proposito ha parlato, sin dal 1969, di pietra angolare dell’ordine democratico); l’art. 54 prevede che “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”; ai sensi dell’art. 97, inoltre, “i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”; l’art. 98, infine, prevede che “si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici” solo per talune categorie di funzionari pubblici (magistrati, militari di carriera in servizio attivo, funzionari ed agenti di polizia, rappresentanti diplomatici e consolari). Possiamo, quindi, sommariamente affermare che il dipendente pubblico gode, al pari di tutti i cittadini, della libertà di esprimere il proprio pensiero, pur dovendosi muovere in un ambito che prevede dei paletti molto chiari correlati alla necessaria e indefettibile imparzialità della sua azione e alla disciplina e all’onore che devono informare la sua attività. Il motivo è evidente: essendo i pubblici impiegati al servizio esclusivo della Nazione (art. 98, Cost.), la Carta fondamentale lega una delle principali libertà costituzionali a limiti e cautele legati alla particolare funzione pubblica che essi svolgono.

Posto che la Corte costituzionale ha evidenziato che i limiti alla libertà di manifestazione del pensiero devono trovare fondamento in dati testuali della Carta e dal contemperamento con altri diritti costituzionalmente rilevanti, è possibile far riferimento, per semplicità, al Decreto del Presidente della Repubblica 16 aprile 2013, n. 62 (Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici) al cui art. 1 solennemente si prevede: “Il dipendente osserva la Costituzione, servendo la Nazione con disciplina ed onore e conformando la propria condotta ai principi di buon andamento e imparzialità dell’azione amministrativa. Il dipendente svolge i propri compiti nel rispetto della legge, perseguendo l’interesse pubblico senza abusare della posizione o dei poteri di cui è titolare”. Per quel che più qui interessa, rilevano le disposizioni secondo cui “nei rapporti privati, comprese le relazioni extralavorative con pubblici ufficiali nell’esercizio delle loro funzioni, il dipendente […] non assume nessun altro comportamento che possa nuocere all’immagine dell’amministrazione” (art. 10, co. 1) e, “salvo il diritto di esprimere valutazioni e diffondere informazioni a tutela dei diritti sindacali, il dipendente si astiene da dichiarazioni pubbliche offensive nei confronti dell’amministrazione” (art. 12, co. 2). Ecco, dunque, il punto: le dichiarazioni di D’Ambrosio hanno nuociuto all’immagine del Ministero dell’Istruzione o sono state offensive dell’Amministrazione?

Sarà naturalmente l’esito finale del procedimento a dare una risposta ma, alla luce dei post pubblicati sul profilo Facebook del dirigente scolastico, e pur non entrando direttamente nel merito delle affermazioni ivi riportate, alcune considerazioni possono esser fatte. Va in primo luogo rilevato che, per evidenti questioni di opportunità, è buona norma astenersi dal commentare azioni e politiche dell’amministrazione presso cui si opera. È, infatti, palese come, in un simile caso, ci si muova sul un filo assai sottile, esprimendo valutazioni che, pur se tecnicamente motivate, possono entrare in conflitto con le determinazioni dell’amministrazione di appartenenza, formatesi e formulate attraverso procedure prestabilite. Ove, dunque, tali determinazioni non vengano condivise, la critica alle stesse andrebbe veicolata internamente o, in ogni caso, attraverso le organizzazioni sindacali e associative che si confrontano con l’amministrazione stessa. Si pone, in altre parole, non solo un problema di metodo, in quanto parte dell’organizzazione, ma anche di merito, prestando inevitabilmente il fianco all’accusa, fondata o meno, di ingerenza nel processo decisionale della struttura. Il punto è ancor più sensibile nel caso di critica al vertice politico: è del tutto fuori luogo che un appartenente ad un’amministrazione pubblica, al di fuori del fisiologico confronto sindacale e soprattutto ove rivesta ruoli dirigenziali, esprima valutazioni o critiche nei confronti della propria autorità politica. Vorrei esser chiaro: le affermazioni del dirigente veneto non sono state offensive e, a mio modo di vedere, seppur espresse con vivacità al limite della polemica politica, difficilmente potrebbero essere interpretate come lesive della dignità del Ministero o della Ministra Azzolina, la quale, peraltro, ha risposto ad una lettera di D’Ambrosio precisando che i procedimenti disciplinari sono avviati in modo autonomo dall’amministrazione e che il vertice politico non può e non deve intervenire nel merito. Tuttavia, in ossequio alle regole d’ingaggio che vedono attribuire alla politica il compito di dare indirizzi e alla burocrazia quello di attuarli, è quantomeno bizzarro che chi abbia l’incarico di implementare le politiche del proprio ministro di riferimento le critichi pubblicamente.

Non si tratta di censura, beninteso. Sono convinto che per il pubblico funzionario far valere pubblicamente la sua opinione sui temi di rilevanza generale sia un dovere civico, oltre che un diritto: egli (o ella) è parte vivente dello Stato e deve interagire con la collettività in un quadro di altissima complessità giuridica, contabile, manageriale. Esiste, tuttavia, un doppio confine. Un confine interno, che implica una leale collaborazione all’interno della propria struttura e col proprio vertice politico, legittimato democraticamente e le cui politiche si ha il dovere di implementare a tutti i livelli, ovviamente in armonia col quadro normativo. Ed un confine esterno, per il quale censurare l’operato dell’autorità politica o, peggio, far trasparire o emergere una preferenza verso una parte politica o un’altra in relazione alla propria attività lavorativa, impatterebbe potenzialmente sul principio di pari trattamento dei cittadini sulla base della imparzialità dell’azione della macchina pubblica. È ben possibile, in ogni caso, esprimere valutazioni sull’operato del Governo nel suo complesso o di esponenti della politica nei confronti dei quali non vi sia collegamento diretto: va da sé che l’opinione espressa non solo non deve essere urlata, ma non può non essere strettamente coerente con quei paletti di “disciplina e onore” che la Costituzione richiede, restando saldamente nell’ambito di quanto previsto dal Codice di comportamento dei dipendenti pubblici. Ogni esternazione, naturalmente, porterà con sé un carico di responsabilità, che l’autore dovrà attentamente valutare. Il ruolo di servitore dello Stato implica, inevitabilmente, un carico di responsabilità diverse del tutto peculiare tal che la casacca di civil servant non è un mantello che si indossi o smetta a piacimento e i comportamenti fuori dalle mura dell’ufficio (in una piazza reale o digitale) sono, nei limiti del rispetto della sfera privata ed in relazione ad altri principi costituzionali, sempre rilevanti ai fini della valutazione della condotta dell’individuo.

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