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Vaccini, tracciamento e startup. Jonathan Pacifici spiega come Israele ha battuto il virus

Di Jonathan Pacifici

Prima e meglio di tutti Israele ha capito l’importanza di un corretto tracciamento dei dati. Per questo ha vinto la sua battaglia, anche con l’aiuto delle startup. Il saggio “Gli unicorni non prendono il coronavirus, viaggio tra le startup israeliane nell’economia che ha sconfitto il virus”, scritto da Jonathan Pacifici, general manager dei fondi Wadi Ventures e Sixth Millennium

Pubblichiamo un estratto del libro “Gli unicorni non prendono il coronavirus, viaggio tra le startup israeliane nell’economia che ha sconfitto il virus”, di Jonathan Pacifici

All’inizio del 2020 il pianeta si è fermato. La pandemia Covid19 ci ha trovato assolutamente impreparati. La crisi dei sistemi sanitari, della quale abbiamo avuto un desolante esempio in nord Italia, si è presto tramutata in uno tsunami economico. Decine di milioni di disoccupati in tutto il mondo, interi settori distrutti, collegamenti interrotti, turismo cancellato. Evidentemente la crisi non ha colpito tutti allo stesso modo. In Israele, il governo ha chiuso le frontiere in tempi utili ed imposto un rigoroso lockdown. Non sono mancati errori e problemi ma il paese in generale se l’è cavata relativamente meglio che altrove.

Al pari della maggior parte dei paesi anche in Israele la vita è stata rivoluzionata dal virus ma il tasso di mortalità è stato significativamente più basso che altrove (0,8% con 39,98 morti su 100.000 persone contro il 3,5% e 127,9 morti su 100.000 persone in Italia). Ciò che è già chiaro è che quando si scriverà la storia di questa pandemia emergeranno alcuni punti fondamentali che hanno premiato il modello israeliano. In primis un sistema sanitario di assoluta eccellenza che prende il meglio della centralizzazione nazionale e della copertura capillare in mano alle quattro Kupot Holim, HMOs (Health Maintenance Organizations).

Si tratta di quattro mutue non-profit in concorrenza tra di loro. Ogni cittadino israeliano, tramite il sistema di previdenziale nazionale, ha una copertura base integrabile da servizi aggiuntivi a pagamento. Al centro di ogni Hmo ci sono i 10 dati. Ogni interazione, ogni analisi, ogni visita medica ed ogni ricetta, ogni esame clinico ed ogni acquisto di medicinali è tracciato, registrato e disponibile online e via app per il paziente e per ogni struttura medica nel paese, dal medico di base all’ospedale. Il cittadino ha nel palmo della mano tutta la sua storia medica ma il sistema paese ha la statistica ed il controllo in tempo reale di ciò che succede. Si tratta cioè di una sanità data driven, basata sui dati. Dai primi giorni della pandemia la tecnologia è stata al centro dello sforzo nazionale.

Sul sito del Ministero della Sanità è disponibile in tempo reale un cruscotto con tutti i principali parametri relativi all’andamento dei contagi ed una miriade di altri indicatori rilevanti. I dati esistono sono corretti, affidabili e soprattutto coprono il 100% della popolazione. Pur nella garanzia della privacy, i sistemi informatici sanitari sono integrati con quelli delle forze dell’ordine. Si tratta di una delle grandi lezioni di decenni di lotta al terrorismo. In caso di un evento di sicurezza nazionale con numerose vittime i dati dei vari attori, polizia, vigili del fuoco, esercito, servizi segreti e soprattutto del sistema di pronto soccorso devono potersi parlare. I protocolli sono già rodati da decenni in una piattaforma multilayer.

Quando all’inizio della pandemia è stato necessario il tracking dei contagiati per ricostruire gli spostamenti e contenere la diffusione del virus, lo Shin Bet, il servizio di intelligence interna ha messo a disposizione (seppure con riluttanza) i propri sistemi di analisi originariamente sviluppati per intercettare i terroristi. Questo ha aperto una sana discussione pubblica in parlamento sui limiti 11 dell’uso di tali apparati eppure, bilanciandone l’intrusività con la supervisione del sistema giudiziario, i risultati sono stati importanti. Non tutto è stato perfetto. Ci sono state asincronie nella gestione dell’aeroporto, imperdonabili falle nell’isolamento di alcune Rsa, il sistema dei controlli era perfettibile ma soprattutto lo Stato ha dovuto fare i conti (anche politici) con significative frange della popolazione fondamentalmente indisciplinate. Ultra-ortodossi, arabi israeliani, manifestanti di estrema sinistra e un certo tipo di giovani incoscienti sono stati responsabili di focolai che ancora oggi si fatica a gestire.

Eppure, proprio la capacità dello Stato d’Israele di avere una chiara visione dei dati in tempo reale è al centro del recentissimo accordo stipulato dal Premier Netanyahu con Albert Bourla, il ceo della Pfizer. Israele come pilot mondiale: primo Paese completamente vaccinato entro marzo 2021! La Pfizer ha anticipato le spedizioni delle dosi ordinate con largo anticipo (e con largo sovrapprezzo) da Israele mentre Israele, dal canto suo, condividerà con Pfizer i dati di questa imponente operazione di vaccinazione. Mentre scrivo queste righe il mondo guarda con stupore alla campagna di vaccinazione messa in moto in Israele. In poco meno di tre settimane sono state vaccinate più di un milione e settecentomila persone, il 70% delle quali sopra i sessant’anni.

L’aspettativa è quella di completare la vaccinazione di tutta la popolazione entro marzo, ma i risultati dovrebbero vedersi molto prima con una diminuzione dei malati gravi, soprattutto anziani. È l’operazione Torniamo a vivere, sulla quale Israele si gioca la pole position nella ricostruzione post pandemica 12 e King Bibi il futuro della sua lunga carriera politica con delle difficilissime elezioni anticipate (le quarte in due anni) proprio a fine marzo. Anche dal punto di vista economico le cose sono andate meglio che altrove.

Già all’inizio della pandemia, con un’operazione guidata dal Ragioniere Generale dello Stato Rony Hizkiyahu, il ministero delle Finanze ha velocemente disposto l’emissione di 10 miliardi di bond e 5 miliardi di buoni del tesoro sono stati piazzati sui mercati asiatici. I bond a 40 anni portano un interesse annuo del 3,8%, relativamente basso. Gli underwriters sono stati Deutsche Bank, Bank of America Securities, Merrill Lynch e Goldman Sachs. Altri 5 miliardi sono stati piazzati sui mercati occidentali: 2 miliardi a 10 anni al 2,75% annuo; 2 miliardi a 30 anni al 3,875% e, per la prima volta nella storia del paese, $1 miliardo a 100 anni al 4,5%.

Il tasso relativamente contenuto è possibile grazie al buon rating del paese: l’agenzia Moody’s assegna ad Israele A1 stable; S&P AA- stable; Fitch A+ stable. Significativa la domanda che è stata pari a $25 miliardi, cinque volte l’offerta, a testimonianza dell’interesse che l’economia israeliana raccoglie sui mercati internazionali. L’operazione ha coinvolto infatti 400 investitori in 40 paesi.

Hizkiyahu ha appunto affermato che si tratta della “più grande emissione di debito nella storia del paese che dimostra la fiducia di un gran numero di investitori internazionali di qualità nella forza dell’economia israeliana, specialmente 13 mentre il paese affronta la crisi del coronavirus”. Israele utilizzerà parte della raccolta per finanziare il pacchetto di aiuti necessario alla ripresa economica. Perché tutta questa fiducia nell’economia israeliana? Parte del segreto è nella locomotiva del settore tech che traina il paese e che non ha dato segni di crisi nemmeno in questi mesi di lockdown.

Come sempre vale la regola follow the money ed i capitali raccolti dalle società tech israeliane raccontano gran parte della storia. Secondo i dati Ivc-Zag le startup israeliane hanno raccolto 10,6 miliardi nel 2020, superando la soglia psicologica dei 10 miliardi e battendo tutti i record nonostante la pandemia globale senza precedenti che ha devastato l’economia mondiale. Si tratta di un incremento di oltre il 20% rispetto al 2019 e il capitale versato alle aziende locali è più che triplicato in soli sei anni. Parliamo solo di investimenti: il conto delle quotazioni, acquisizioni e fusioni è ancora da fare ma sarà ancora una volta astronomico.

Nel 2019 il valore degli exit è stato di 21,74 miliardi. In un mondo occidentale sempre più confuso e stagnante, Israele rappresenta un’isola felice di sviluppo, crescita e positività. Mi capita relativamente spesso di parlarne con investitori e colleghi italiani. Molti, guardando quello che avviene qui, ritrovano l’emozione della crescita dell’Italia del dopoguerra. Uno di loro, uno dei migliori imprenditori che l’Italia abbia avuto in tempi recenti, mi disse dopo tre giorni a spasso tra gli hub israeliani: “Jonathan, mi hai fatto tornare la voglia di fare l’imprenditore.” È per questo che ho deciso di scrivere questo libro. Per raccontare a coloro che hanno voglia di fare gli imprenditori che un altro mondo è possibile ed esiste a tre ore di volo da Roma. E magari per far venire voglia ad altri di rimboccarsi le maniche e mettersi in gioco.

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