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Buio pesto. Così la crisi mette a rischio la politica industriale

politica industriale

Questa settimana lo spread si è mosso poco nella presunzione di una crisi brevissima. La settimana prossima vedremo che succederà. Se il “buio” resta “pesto”, potrebbero essere guai seri. L’analisi di Giuseppe Pennisi

Da settimane gli osservatori temevano che le differenze di vedute sempre più profonde all’interno della maggioranza-che-fu – messe a nudo all’inizio di dicembre 2020 con il blitz in Consiglio dei ministri di una bozza di Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) che pareva fatto su misura per il Prof. Avv. Giuseppe Conte – portassero ad una “crisi al buio”. Ora, la crisi pare invece al “buio pesto”, una partita a scacchi all’interno del Palazzo su arzigogolati scambi di ruolo e di poltrone per permettere all’avvocato di Volturara Apulia di continuare essere inquilino di Palazzo Chigi.

Di contenuti non si parla o quasi. Eppure ci sono scadenze urgenti. Non solo la miniproroga tributaria al primo febbraio (ossia lunedì prossimo) e la finalizzazione del PNRR che dovrebbe essere finalizzato a fine marzo, dopo un confronto con le Regioni e gli enti locali, ed un dibattito parlamentare (dove verrà senza dubbio presentato il PNRR dell’opposizione che da diverse settimane può essere letto online). Ma ci sono vari impegni di politica industriale. In primo luogo, ci sono la Rete Unica di banda ultralarga e il fidanzamento tra Open Fiber e Tim (che non hanno ancora scelto la data delle nozze e inviato le relative partecipazioni) e il matrimonio, già celebrato e consumato, tra Fiat-Chrysler e Psa con i conseguenti interrogativi sul futuro degli impianti localizzati in Italia.

Seguono a ruota due questioni annose: i sempre eterni lamenti di Alitalia e dell’ex-Ilva (che faticano anche a pagare gli stipendi nonostante le frequenti iniezioni di capitale pubblico) e gli interrogativi sul futuro di Autostrade per l’Italia, tanto che l’Unione europea (Ue) ha già fatto sapere che la soluzione proposta dal governo è contraria ai principi del diritto europeo (ma il Prof. Avv. non se ne era accorto?). Inoltre, Mediaset sta tentando di creare un polo europeo di audiovisivo, piano contrastato da Vivendi (che gode del supporto del Governo francese). Infine, c’è il crescente ruolo del capitale pubblico in molti settori del manifatturiero, senza chiari programmi (almeno nelle dichiarazioni pubbliche) se si tratta di misure temporanee, dovute alla pandemia, o misure permanenti per riportare l’industria italiana al modello prevalente nel dopoguerra ove non a quello degli ultimi lustri del fascismo. Ciò suscita numerosi dubbi sulla compatibilità di questo modello con i paradigmi dell’Ue; si legga in proposito il recente lavoro di Salvatore Zecchini, “La politica industriale nell’Italia dell’euro” (Donzelli Editore, 2020) per toccare con mano quanti passi in avanti si sono fatti e quanti indietro si rischiano di fare.

Viene, poi, il terziario che, come in tutti i Paesi avanzati, rappresenta circa i due terzi del Pil. È stato il settore più colpito dalla pandemia, specialmente in alcuni comparti. Ci sono interrogativi seri di politica settoriale che attendono risposte. In quali comparti la pandemia ha accelerato tendenze già in atto (ad esempio, nel cinema la contrazione dell’offerta nelle sale e l’espansione dell’home entertainment) e come tali tendenze devono essere considerate nella formulazione e attuazione delle politiche? Come modernizzare alcune filiere? E così via. Possono sembrare interrogativi meno urgenti di quelli attinenti il manifatturiero. Ma non lo sono perché sia per il sollievo temporaneo, sia per strategia ci vuole chiarezza, nonché perché sollievo di breve periodo e strategia a medio e lungo termine sono strettamente interrelate.

Ci sono, poi, almeno due importantissimi appuntamenti di politica economica internazionale: il G20 che quest’anno è presieduto dall’Italia e la conferenza sul futuro dell’Europa. A proposito del primo, il ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale e il sempre loquace ufficio del portavoce della presidenza del Consiglio stanno procedendo in modo così riservato che non se ne sa nulla. Sulla conferenza sul futuro dell’Europa, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro ha prodotto un ottimo Documento di Osservazioni e Proposte (che si può leggere sul sito dell’organo e su cui ritorneremo), ma non si sa nulla dal Governo, neanche le reazioni alle proposte del Cnel.

A Palazzo Chigi pare che si dorma tra due cuscini, nella presunta certezza che non scatterà nessuna crisi finanziaria, denotatore in passato dell’avviso di sfratto: c’è la Banca centrale europea (Bce) che compra tutti i titoli italiani con il risultato che lo spread resta immobile. Il 29 gennaio, il compassato Prof. Angelo Baglioni dell’Università Cattolica (che è stato anche componente della European Banking Authority Eba) ha un po’ rotto le scatole ricordando, con un serio studio, che gli interventi Bce non sono illimitati e “non sono finalizzati a fare da calmiere allo spread”. Ha ricordato che è anche vero che ne esiste un altro che è stato concepito proprio per questo scopo: quello denominato Outright Monetary Transactions (Omt), introdotto da Mario Draghi nel 2012. Peccato che preveda, come condizione per accedervi, il ricorso alla assistenza finanziaria del Meccanismo europeo di stabilità, il famigerato Mes. Si noti: non l’attivazione della nuova linea di credito, quella introdotta l’anno scorso per finanziare spese nel settore sanitario, ma quella tradizionale, con tanto di condizionalità macroeconomica”, anatema per il Movimento Cinque Stelle. “Quale governo – si chiede Baglioni – dopo la cattiva pubblicità che ne è stata fatta, oserà mai ricorrere al Mes?”.

Questa settimana lo spread si è mosso poco nella presunzione di una crisi brevissima. La settimana prossima vedremo che succederà. Se il “buio” resta “pesto”, potrebbero essere guai seri.



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