Il presidente americano rappresenta un gigantesco rischio per la democrazia, diretta conseguenza di un’idea primitiva del potere, della sua natura e della gestione che ne consegue
La premessa è d’obbligo: chi scrive non ho avuto certo bisogno di attendere le inquietanti e surreali immagini dell’assalto a Capitol Hill, per maturare le sue convinzioni sulla presidenza Trump. Parliamo di un uomo che rappresenta a tutt’oggi un gigantesco rischio per la democrazia, diretta conseguenza di un’idea primitiva del potere, della sua natura e della gestione che ne consegue.
Quando i patrioti (citazione dell’auto referenziale cerchio magico trumpiano) hanno fatto scempio delle istituzioni democratiche americane, dando l’assalto all’aula del Congresso, si è semplicemente arrivati all’inevitabile punto d’approdo di quattro anni di sistematica e fredda demolizione, dall’interno, dei meccanismi democratici e di quell’equilibrio dei poteri, vero e proprio architrave dell’ordinamento costituzionale statunitense. Sempre chi scrive non ha mai mancato, per convinzione e deferenza all’oggettività dei fatti, di sottolineare i successi centrati da questa comunque impresentabile amministrazione. Anche osservandoli da lontano, a cominciare dal più rilevante, il cosiddetto “Patto di Abramo”, la politica di Trump (ammesso che possa essere definita “politica” un procedere per puri istinti umorali e costante ricerca di un nemico da additare alle sue truppe) è nella migliore delle ipotesi una conventio ad exscludendum. La diplomazia mediorientale ne è uno splendido esempio, in cui non si ha la più pallida idea di come recuperare i protagonisti attualmente esclusi dal “patto” medesimo.
Sottolineato e premesso tutto ciò, se si passa all’analisi delle reazioni dei colossi dei social, davanti al palese e cinico abuso da parte del capo della Casa Bianca, il discorso cambia radicalmente. Quando Twitter si arroga il diritto di cancellare l’account del Presidente degli Stati Uniti d’America, non agisce solo per una forma di autotutela.
Sarebbe ipocrita fermarsi a questo stadio. Per quanto detestabili e probabilmente degni di un severo processo democratico, fino alla sua destituzione, i pensieri di Donald Trump restano l’espressione della massima carica elettiva del Paese. Un’istituzione che per sua natura non può essere sottoposta a un potere squisitamente privato, come quello esercitato dai vertici di Twitter nei confronti delle versioni della verità di The Donald.
La presidenza Trump ha così messo a nudo, involontariamente in questo caso, tutti i limiti di una crescita di potere esponenziale, completamente priva di una qualsiasi forma di efficace controllo pubblico o almeno terzo.
Questo è il nocciolo del problema, perché oggi è facile raccogliere consensi, da parte dei vertici dei social network, nel momento in cui impongono con accompagnamento di grancassa lo stop ai deliri trumpiani. È facile anche trovare sponde tra le fila democratiche, già per istinto abbastanza vicine alle esigenze e ai desiderata delle big tech. Per ripartire, per cominciare a lenire le ferite inferte da quattro anni di Trump alla democrazia americana e all’internazionalismo, sarebbe bene affrontare con equilibrio, ma anche coraggio, questo tema cruciale per il nostro futuro. I social non possono solo autoregolamentarsi.
Un quadro normativo è necessario, come porre dei confini, prima ancora che dei limiti. Perché il principio che sta facendo capolino e a cui rischiamo di assuefarci in questi giorni pazzeschi è insostenibile per una democrazia matura e moderna. Questa mirabile forma di condivisione ed equilibrio del potere statale, frutto dell’evoluzione di 25 secoli, resta pur sempre intrinsecamente fragile.
È il prezzo che paghiamo all’idea che i civil servant saranno sempre preferibili, pur con tutti i loro umanissimi limiti, a caudilli, uomini o donne “forti”, narcisisti irrecuperabili.
La magnifica idea della democrazia ha bisogno di tutele fortissime e adattate ai tempi.
Tra queste, si impone la regolamentazione dei social network, anche prima di un tema di maggior fascino popolare, quello della tassazione dei loro profitti.
Sono anni che l’Unione Europea – praticamente caso unico al mondo, con la non certo invidiabile eccezione dei regimi dittatoriali – prova a impostare un complesso ragionamento regolatorio in materia.
Il doloroso esempio di questi giorni impone un’accelerazione senza indugi, pena mettere a rischio la democrazia occidentale.