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Se i social oscurano Trump, ma con la jihad.. Analisi di Dambruoso e Conti

Di Stefano Dambruoso e Francesco Conti
Twitter

Alla luce dell’oscuramento social di Trump si fa strada una domanda. Come agiscono le piattaforme dinnanzi alla jihad? L’analisi di Stefano Dambruoso, magistrato esperto di terrorismo internazionale, e Francesco Conti, master counter terrorism King’s College London

L’inaspettato ban dell’account di Donald Trump da parte di Twitter, seguito poi da altre grandi piattaforme di messaggistica, ha provocato interessanti dibattiti sull’importanza e sul condizionamento che i social media producono oggi sulla politica. Nel giro di 24 ore oltre 2 milioni di followers trumpiani hanno interrotto l’uso di Twitter per spostarsi su altra piattaforma. Allo stesso tempo però si sono aperti due diversi e opposti posizionamenti critici sulla legittimità e opportunità di queste scelte.

Molti opinionisti hanno fatto rilevare che scelte così draconiane non erano state prese, con la stessa tempistica, nei confronti di account di importanti leader musulmani iraniani che continuano a incitare i propri seguaci ad iniziative violente contro i cittadini israeliani. Analisti del terrorismo jihadista hanno ricordato poi di quanto fosse stato tardivo il blocco su Twitter di account riferibili all’Isis che fra il 2014 e il 2015 avevano utilizzato la piattaforma per messaggi di incitamento alla violenza contro i miscredenti. Era prevalso inizialmente il diritto alla libera espressione sulle esigenze di sicurezza nazionale. Il gruppo fondato da Abu Bakr al Baghadi si era reso conto della potenza della messaggistica sul web molto prima del tycoon newyorkese. Nel 2014- 2015 appunto, quando Daesh era al suo apice, il gruppo poteva contare anche su una vasta presenza sul social network, dove il jihad non veniva combattuto con kalashnikov o autobombe, ma a colpi di tweet. Si stima che potesse contare su più di 50.000 account amici sulla piattaforma, sempre pronti a postare e a condividere materiale propagandistico. Una massiccia presenza online era funzionale alle iniziative belliche nel teatro siro-iracheno: diversi foreign fighter di origine occidentale vennero convinti a combattere in Medio Oriente proprio grazie alla quotidiana attività di propaganda del gruppo sui social network, che, al tempo, descrivevano i successi in battaglia e uno stile di vita appagante, corrispondente al vero e autentico insegnamento del Corano. La lotta al jihadismo sul piano digitale è quindi diventata una priorità per l’antiterrorismo globale e per i social media stessi, che collaborano sempre di più con forze di polizia e intelligence.

L’Unione europea è un esempio virtuoso per quanto riguarda la lotta all’estremismo islamista sui social media. Europol ha da tempo costituito una partnership con diversi provider e con unità specializzate delle forze di polizia europee — in Italia la Polizia postale — per contrastare la presenza jihadista sulla rete. Ogni anno l’agenzia europea di law enforcement organizza vere e proprie campagne, i cosiddetti Referral Days, per individuare ed eliminare account affiliati all’estremismo violento. La campagna più recente, avvenuta lo scorso ottobre 2020, si è concentrata sui Balcani, dove sono stati individuati più di 300 link, su quasi 30 piattaforme diverse, che diffondevano propaganda jihadista facendo uso delle principali lingue parlate nella regione. I Referral Days del 2019, invece, si erano focalizzati nel contrastare la presenza jihadista sul sistema di messaggistica online Telegram, eliminando un numero elevato di canali (gruppi dove i membri possono condividere e commentare video) che inneggiavano all’Isis. Telegram è infatti stata la piattaforma di messaggistica più importante usata dai seguaci del Califfato dopo esser stati rimossi da Twitter nel 2016.

Nonostante tali operazioni, la lotta alla propaganda jihadista online rimane un continuo e lungo inseguimento, che vede supporter del terrorismo islamista spostarsi da una piattaforma all’altra. Risale infatti proprio a pochi giorni fa la scoperta di un manuale sulla fabbricazione di esplosivi (nello specifico Tatp o perossido di acetone) a “firma” Isis su Internet Archive, piattaforma nata per condividere fra gli utenti libri, video e file di vario tipo, come una vera e propria biblioteca del Ventunesimo secolo. Il Tatp è noto soprattutto per il suo utilizzo in attentati in Europa, utilizzato prima da al Qaeda negli attentati suicidi di Londra del 2005, e diventato poi un vero proprio marchio di fabbrica degli attentati esplosivi rivendicati dall’Isis, come quelli di Parigi del 2015, Bruxelles del 2016 e quelli di Manchester e Barcellona dell’anno seguente. L’eliminazione di tali manuali sulla rete rappresenta una priorità per l’antiterrorismo europeo. Rispetto agli anni scorsi è comunque aumentata la collaborazione fra le forze di polizia e i social network più importanti, come Facebook, Twitter e recentemente TikTok, i quali si sono dotati di uffici specializzati per collaborare con le investigazioni online sui propri social network (in queste unità ci sono molti ex membri delle forze dell’ordine poi passati al settore privato).

Il grande impegno di Twitter a combattere la presenza di account pro Stato islamico sulla sua piattaforma ha però indirettamente favorito altri gruppi terroristici: infatti, grazie al significativo impegno di Twitter (algoritmi gestiti dall’intelligenza artificiale e moderatori umani) nel combattere principalmente i sostenitori di Daesh, altri gruppi come i talebani, al Shabaab o Jabhat Fateh al Sham (l’ex fronte al Nusra, organizzazione ribelle siriana vicina al Qaeda, ora confluita nel gruppo Hay’at Tahrir al Sham), con un più basso profilo mediatico, soprattutto in occidente, hanno la possibilità di resistere per più tempo all’interno del social network americano, prima che i loro profili vengano anch’essi segnalati e rimossi. Il foreign fighter 24enne partito dall’Italia, arrestato la settimana scorsa dalla polizia turca e preso in consegna dalla Digos di Pescara, in collaborazione con l’Aise, militava appunto in Jabhat Fateh al Sham.

Così come la sconfitta territoriale sul campo dello Stato islamico ha portato alla frammentazione e decentramento dell’organizzazione, con alcuni gruppi che si sono spostati in Afghanistan per unirsi a Isis-Khorasan o che hanno deciso di migrare fino alle Filippine meridionali, altra “zona calda” del jihadismo, le recenti sconfitte subite sul piano digitale hanno portato anche a una frammentazione e decentramento dei supporter di Daesh per quanto riguarda il piano online. Molti seguaci dello stato islamico si sono infatti spostati su una molteplicità di siti e social network minori. L’attacco di Nizza dello scorso 29 ottobre 2020, quando un cittadino tunisino ha ucciso 3 civili all’arma bianca, è stato ad esempio celebrato sulla piattaforma di messaggistica Rocket Chat. L’Isis ha anche utilizzato piattaforme poco utilizzate in Occidente come Koonekti, Baaz o Threema. Ciò ne ha decisamente ridotto la potenza mediatica, ma rischia anche di portare ad una dispersione delle risorse delle forze di polizia e intelligence che hanno il compito di monitorare e contrastare i loro movimenti sulla rete.

Altro aspetto da considerare è che, con la crescente rimozione dei gruppi jihadisti dal campo di battaglia mediatico (almeno sui media più mainstream), i terroristi hanno deciso di migrare nel dark web, dove l’opera di monitoraggio e interdizione da parte delle forze di polizia e delle agenzie di intelligence diviene più ardua. Oltre alla propaganda e ai materiali operativi (comunque presenti anche sul web normale), nel dark web è poi possibile acquistare documenti falsi e armi da fuoco, in veri e propri siti del tutto simili ad Amazon ma dai contenuti totalmente illegali. Si ritiene che gli stessi kalamshnikov utilizzati dai terroristi dello Stato islamico nell’attentato del Bataclan siano stati acquistati da un mercante d’armi tedesco operante proprio sul dark web.

Ma il dark web non è solamente un covo di terroristi e altri criminali; esso è infatti un importante luogo virtuale di incontro  per oppositori politici degli stati più totalitari, dove non vige la libertà di parola e di espressione: dagli attivisti dei diritti umani che si oppongono al regime di Teheran, fino a coloro che propugnano la causa della popolazione uigura o degli abitanti di Hong Kong, contrari alla crescente oppressione della Repubblica Popolare Cinese. Anche per il dark web una valutazione conclusiva dovrà quindi necessariamente tener conto del bilanciamento di importanti principi in gioco quali la sicurezza e la libertà di espressione.

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