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La Cina, gli accademici e l’autocensura. Scrive il prof. Scarpari

Di Maurizio Scarpari

Pubblichiamo ampi stralci dell’articolo “All’ombra dell’anaconda. Considerazioni sinologiche” pubblicato su “Sinosfere”. L’autore è il professor Maurizio Scarpari, che ha insegnato lingua cinese classica dal 1977 al 2011 presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia

(…) L’organizzazione mondiale che monitora le violazioni dei diritti umani, Human Rights Watch, è più volte intervenuta sul tema degli abusi in ambito accademico all’interno e all’esterno della Cina. Sophie Richardson, direttrice dell’area Cina, ha da poco firmato sia il nuovo Codice di comportamento contro ogni forma di abuso all’interno del mondo accademico, sia il rapporto China’s Influence on Global Human Rights System, nel quale viene denunciato il tentativo, da parte dei rappresentanti cinesi alle Nazioni Unite (la Cina è membro effettivo del Consiglio dei diritti umani), di riscrivere le regole e le procedure d’indagine a proprio vantaggio, minimizzando in particolare l’esistenza della censura e dell’autocensura all’interno del mondo accademico, delle comunità cinesi all’estero e del mondo degli affari.

Fuori della Cina il problema è avvertito in particolare in quegli atenei che svolgono attività finanziate, in tutto o anche solo in parte, da enti cinesi o i cui bilanci risentono significativamente della presenza di studenti cinesi nei loro corsi. Maggiore è la dipendenza dai finanziamenti e dai benefici di varia natura di cui godono le istituzioni e le persone (per infrastrutture, ricerche, viaggi di studio, convegni, pubblicazioni, ecc.), più marcata è la pressione esercitata dalla controparte cinese e, di conseguenza, più si accentua la tendenza, accettata come “inevitabile”, a eludere quei commenti o quei comportamenti che potrebbero essere ritenuti inopportuni o inaccettabili dalle autorità cinesi.

(…) L’aspetto più insidioso non riguarda tanto la censura, quanto l’autocensura, sempre più diffusa, che concorre tanto quanto la prima, se non di più, ad “armonizzare (he 和) le menti e le anime” (“melassare” è la traduzione che ho proposto in questo caso per he 和). “The Anaconda in the Chandelier” è l’espressione, divenuta iconica, coniata da Perry Link per descrivere come opera in concreto l’autocensura cinese:

“Negli ultimi tempi l’autorità censoria del governo cinese” scriveva nel 2002 “non assomiglia tanto a una tigre mangia-uomini o a un drago che sbuffa fuoco, quanto piuttosto a un anaconda gigante che avvolge le sue spire attorno a un lampadario che incombe sulle nostre teste. Di solito il grande serpente non si muove. Non serve che si muova. Non sente alcun bisogno di esplicitare i suoi divieti. Il suo costante e silenzioso messaggio è ‘decidi tu stesso’, dopodiché, il più delle volte, tutti coloro che si trovano nella sua ombra fanno i loro piccoli e grandi aggiustamenti, tutto in modo abbastanza ‘naturale’. In pratica, l’Unione Sovietica, dove la nozione di Stalin di ‘ingegneria dell’anima’ è stata perseguita per la prima volta, è stata ben lungi dall’ottenere i risultati che i comunisti cinesi hanno raggiunto nell’ingegneria psicologica”.

Dal 2002 quell’anaconda è cresciuto a dismisura e la sua ombra si è fatta ancor più incombente di quanto Link potesse immaginare.

Il tema dell’autocensura è così intimamente legato alla figura del sinologo che non si può evitare di parlarne nel tracciare il profilo del “sinologo della Nuova Era”: è infatti innegabile che da quando la Cina ha intrapreso la politica di finanziare università, centri di ricerca e associazioni culturali (fenomeno tutto sommato abbastanza recente) la posizione delle autorità amministrative preposte a ricevere quei finanziamenti, e dei sinologi che quei finanziamenti sollecitano, si è fatta più delicata e per certi versi ambigua. L’autocensura è, infatti, la conditio sine qua non della relazione con la controparte cinese nel momento in cui viene sottoscritto un contratto in ambito culturale, è un “non detto” di cui entrambi i contraenti sono consci, al punto da non farne mistero. Chi sostiene di non subire alcun tipo di censura quando si è autocensurato in via preventiva (come nel caso dell’istituzione degli Istituti Confucio all’interno delle università) vuole dare da intendere a se stesso, ancor prima che ad altri, che la libertà accademica sarà comunque salvaguardata dalla personale capacità di gestire il rapporto con la controparte cinese. Si tratta di una pia illusione, se non di un inganno, innanzi tutto verso se stessi: autocensurarsi equivale sempre e comunque a cedere sul piano dell’autonomia. E quant’anche fosse una strategia accettabile, un pragmatismo indispensabile, chi segna il limite oltre il quale non è lecito andare?

Le dinamiche instauratesi tra la Cina e diversi altri Paesi all’indomani dello sbarco nel mondo accademico degli Istituti Confucio (IC) sono un esempio lampante della capacità cinese d’infiltrazione nel tessuto culturale, politico ed economico di un Paese. Nessun istituto culturale al mondo è incardinato in università straniere, gli IC rappresentano dunque un caso unico, un’anomalia sorprendente se si considera che dipendono da un organismo statale totalmente controllato dal Pcc, notoriamente irrispettoso della libertà di espressione e dell’autonomia accademica, il cui Dipartimento centrale di propaganda è particolarmente attivo in patria e all’estero. Gli IC sono solo un tassello di una strategia di ben più ampio respiro, che meriterebbe di essere indagata approfonditamente, comprendendo, tra l’altro, lucrosi contratti offerti da atenei e centri di ricerca cinesi a “esperti” nei più diversi ambiti (rivelatisi i migliori ambasciatori del successo cinese) e il proliferare di centri studi e associazioni culturali che organizzano eventi o offrono servizi di consulenza e assistenza, prevalentemente economica e commerciale, ma che soprattutto creano i giusti contatti con il mondo della politica e dell’apparato burocratico locale. Si tratta di network di “relazioni di qualità” e di “interessi forti” che si prefiggono l’obiettivo di facilitare il dialogo tra/con le “persone che contano” e, attraverso queste, tra/con le istituzioni, svolgendo funzioni di lobby e favorendo la creazione di consenso nei confronti della Cina, anche a livello popolare. Fanno parte di questi network politici, ex parlamentari ed ex ministri, ex diplomatici, docenti universitari, ricercatori, economisti, politologi, analisti ed esperti di relazioni internazionali, giornalisti, imprenditori ecc.

(…) La questione ci riguarda dunque molto da vicino, perché siamo noi sinologi i principali artefici del successo degli IC, dal momento che abbiamo noi stessi favorito il loro ingresso all’interno delle nostre università, proponendoci di dirigerli (affiancati da un co-direttore di parte cinese), e acconsentendo ad agevolare la realizzazione dei loro obiettivi strategici. Se le attività svolte attraverso il coinvolgimento degli IC non vengono censurate, è perché quelle attività non recano alcun fastidio, e perché, semmai ci fosse il rischio che lambissero terreni minati, il contratto prevede la garanzia che non vengano mai superati i limiti consentiti.

(…) Schierarsi è inevitabile, soprattutto se vengono violati i diritti di libertà e di espressione e se in discussione ci sono i valori civili in cui crediamo, fa parte della coerenza dei nostri sentimenti, della nostra dignità di studiosi liberi e indipendenti, della fedeltà a presupposti irrinunciabili, fondati anche sulla nostra esperienza personale e sull’impegno assunto con la presa di servizio, la quale fissa principi e confini deontologici della nostra professione, enunciati dalla Charta (Magna Charta Universitatum, ndr), che equivale, mutatis mutandis, al giuramento di Ippocrate prestato dai medici prima di iniziare a esercitare.

Negli Stati Uniti desta preoccupazione il calo degli studenti di cinese nei loro atenei, risultato della aggressiva campagna anti-cinese promossa da Donald Trump, che in prospettiva ridurrà il numero di sinologi in grado di consigliare e orientare le scelte di governi e aziende, che, privi di guide esperte, potrebbero non prendere le decisioni migliori. Il problema in Italia non si pone, non solo perché il numero degli aspiranti sinologi non è in calo ma in aumento, ma anche perché le nostre istituzioni governative per elaborare valide strategie nei confronti della Cina non hanno mai preso seriamente in considerazione esperti sinologi, “certificati” dai nostri atenei o centri di ricerca e non da qualche università cinese, come talvolta è invece accaduto. È arrivato il momento di far fare alla sinologia italiana, che annovera studiosi di valore e giovani preparati e dalle grandi potenzialità, il salto di qualità che le circostanze attuali richiedono.

La questione non è puramente accademica. La Cina è una realtà sempre più presente, non sta più, come un tempo, dall’altra parte del mondo, isolata da tutti, non può più essere semplicemente quell’oggetto di studio fine a se stesso che ci siamo concessi per lungo tempo. È giunta tra noi, sospinta da ambizioni forti, che mirano a cambiare l’assetto geopolitico dell’intero pianeta, che si scontrano con resistenze altrettanto potenti, imponendo a chiunque, prima di tutto a noi sinologi, riflessioni nuove e scelte ben ponderate. Parafrasando le parole di Franceschini, mi chiedo: “Se non i sinologi, chi dovrebbe garantire l’autonomia degli studi sulla Cina all’interno degli atenei? E se non ora, quando verrà il momento di prendere posizione?”.

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