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Sovranismo digitale: è ancora democrazia? Le riflessioni di Morcellini

Comunicazione

Il processo da tempo strisciante nel mondo evanescente e sfuggente degli algoritmi porta a una privatizzazione dei sistemi democratici, invece che a una difesa e valorizzazione dei “beni comuni”

La vicenda del bando censorio di Twitter nei confronti di Trump, dopo i messaggi e le dichiarazioni che eccitavano gli animi degli assaltatori di Capitol Hill, contro la proclamazione di Biden, ha riacceso i riflettori sul tema della libertà di espressione nell’era degli ‘algoritmi di ultima generazione’ in versione social.

In molti, di fronte alle esternazioni di Trump, hanno alzato la voce invocando, come il famoso mugnaio di Potsdam di brechtiana memoria, l’intervento di un giudice a Berlino e salutando la decisione di Twitter (poi emulata, in varie forme, da Facebook, Instagram, Snapchat, Twitch, Youtube, nonché da Apple, Google e Amazon che hanno rimosso dai loro server il social conservatore Parler), come l’agognato verdetto pronunciato contro l’imperatore Federico II di Prussia.

Ma da Berlino, invece, la Cancelliera uscente Angela Merkel, tramite il suo portavoce, ha definito quantomeno ‘problematica’ la scelta di Facebook e Twitter di chiudere gli account di Donald Trump: un intervento è sì possibile, anzi dovuto, “ma nel quadro definito dal legislatore”. Finalmente il quesito appare limpido: chi deve regolare chi? Oppure, volendo risalire lungo i percorsi della letteratura classica fino a  Giovenale, quis custodiet custodes?

Ritornando all’attualità, è davvero sufficiente affidarsi ai Codici etici aziendali delle Big Tech, e delegare dunque agli Over the Top la presa in carico di valori universali quali pluralismo e libertà di espressione, vale a dire i fondamenti essenziali delle società democratiche? Domande che dovrebbero suonare retoriche, ma che invece rimangono inevase in tempi di asimmetria patologica fra organi politico-istituzionali e superpoteri economico-finanziari.

“Nessuno, nemmeno il Presidente degli Stati Uniti, è al di sopra della nostra policy” – ha tuonato la numero due di Facebook Sheryl Sandberg.

E’ impressionante la ruvidezza provocatoria di questa presa di posizione, poiché cerca di accreditare un argomento tutt’altro che condiviso relativo al potere degli OTP, eretto così a organizzazione politica sovranazionale che finisce per ridimensionare gli Stati sovrani a periferia dell’impero digitale.

E’ vero del resto che troppo a lungo essi si sono conformati a una sostanziale sudditanza rispetto alla ‘costituzione materiale’ degli interessi delle piattaforme. Una lettura quasi elementare delle Costituzioni democratiche vuole che agli Stati spetti la produzione legislativa, e dunque la conseguente regolazione dei poteri, ma senza che ciò significhi che essi stessi si sentano esonerati dal rispetto delle norme.

Per definizione la democrazia non può accettare, senza abdicare a se stessa, che qualcuno possa sostituirla nelle sue policy autonome. La vicenda di Trump va dunque analizzata attentamente, poiché da quel momento nulla potrà più essere come prima.

Da un lato è stato sapientemente scelto l’episodio clamoroso dell’assalto a Capitol Hill per giustificare una sorta di infarto alla democrazia prontamente messo in campo prima da Twitter e poi da diverse altre piattaforme; dall’altro è più chiara oggi la sconfortante sottovalutazione evidente nei sistemi democratici occidentali e nelle stesse organizzazioni sovranazionali, come se non si fosse posto il problema che una democrazia disattenta alla regolazione dei latifondi digitali finisce per autodistruggersi.

Il processo da tempo strisciante nel mondo evanescente e sfuggente degli algoritmi sembra dunque quello di una privatizzazione dei sistemi democratici, invece che una difesa e valorizzazione dei ‘beni comuni’. Siamo di fronte a un autentico neofeudalesimo in salsa digitale basato sul capitalismo anarchico della comunicazione e delle reti, che sotto l’apparenza suasiva di sterminati open fields ha eretto invece invalicabili enclosures.

E’ ciò che Luciano Floridi ha recentemente definito “Tragedy of commons”, con esplicito riferimento alle risorse digitali dell’infosfera: “Se chi vive questi spazi agisce solo in base al proprio interesse personale, comportandosi in modo contrario al bene comune di tutti gli utenti, allora quella risorsa viene esaurita. All’inizio degli anni Novanta c’erano grandi aspettative in quello che era allora il cyberspazio: comunicazione, trasparenza, coinvolgimento politico, tutti ingredienti buoni che sono ancora lì. Ma poi c’è stato il web, la commercializzazione, il mercato, ed è iniziata l’erosione di questi commons, cioè di questi spazi comuni dove oggi ci si scontra a colpi di app e accounts” (Huffington Post, 13-1-2021).

Se la democrazia si avvia a divenire proprietà privata, al popolo rimane l’elargizione di una ‘sovranità digitale’ da servi della gleba, parcellizzata e recintata in echo-chambers a tenuta stagna, incapaci ormai di ogni interazione e condivisione. Siamo di fronte alla rappresentazione drammaturgica della fine del legame sociale e del tramonto dell’Occidente, come hanno dimostrato le immagini sconvolgenti degli assaltatori di Capitol Hill, non a caso entrati, in dissacranti abiti tribali e carnevaleschi, nel luogo-simbolo della democrazia universale.

Se il potere politico viene ormai esercitato in proprio dal potere economico dei nuovi feudatari a rimetterci saranno entrambi i valori-cardine della civiltà occidentale: giustizia e libertà. Nelle praterie digitali formato hi-tech, in cui la particolarità del diritto si sostituisce all’universalità dei princìpi, si è arrivati al punto che le piattaforme social divenissero indispensabili quanto i mulini di Potsdam evocati da Bertolt Brecht. Tutto questo a fronte di una progressiva naturalizzazione delle distonie e distopie del paesaggio digitale che ha portato i soggetti a percepire come data e sostanzialmente immodificabile una situazione  artatamente creata e indotta da società orientate alla massimizzazione dei profitti, piuttosto che alla valorizzazione dei beni comuni.

Saremmo dunque di fronte a un potere che rischia di diventare legibus solutus, e in una situazione in cui si accetta acriticamente una sorta di “sovranismo digitale” che rischia di svuotare la democrazia se non si attivano i necessari sistemi di checks and balances e di ‘regolazione terza’ e indipendente. E saremmo in una formazione politica nuova permeata di assolutismo, sempre che le democrazie liberali non si dimostrino in grado di contrapporre alle oligarchie digitali un adeguato disegno di bilanciamento dei poteri.

Nella vicenda storica del passato, a sconfiggere il feudalesimo sono state le rivoluzioni dell’Età moderna; ma nel nostro tempo serve una rivoluzione culturale ispirata al neoumanesimo e dunque radicata nelle coscienze e negli individui per ridare anima e forza alle democrazie rese fragili dalla crisi.

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