Ormai la necessità di un decoupling tecnologico dalla Cina è ben chiara negli Usa, anche tra i dem. Così un documento firmato da 15 consulenti politici ed esperti di tech (tra cui vertici passati e attuali di Google) tiene banco a Washington: per affrontare la sfida dei tecnoregimi serve un’alleanza tra tecnodemocrazie (manca l’Italia, speriamo per una banale dimenticanza…). Tutti i dettagli
La nuova amministrazione statunitense guidata da Joe Biden sta discutendo di “biforcazione” nei settori tecnologici statunitense e cinese grazie a un documento firmato da esperti di sicurezza nazionale e professionisti dell’industria tecnologica. Axios.com ne ha ottenuto una copia, disponibile qui.
IL DOCUMENTO
Il rapporto, intitolato “Asymmetric competition: a strategy for China & technology” è stato redatto l’estate scorsa da un gruppo di lavoro informale composto da 15 esperti che hanno contributo a titolo personale. Come scrive Axios.com, l’idea di un decoupling di alcuni settori delle economie statunitense e cinese sembrava “radicale” tre anni fa quando l’allora presidente Donald Trump lanciò la sua guerra commerciale con Pechino. “Ma ora la strategia ha un crescente sostegno bipartisan e persino industriale”, sottolinea la testata americana.
GLI AUTORI
Tra gli autori compaiono: Eric Schmidt, ex amministratore delegato di Google; Jared Cohen, amministratore delegato dell’incubato Jigsaw di Google end ex consigliere di Condoleezza Rice e Hillary Clinton; Richard Fontaine, amministratore delegato del Center for a New American Security, think tank fondatore da Kurt Campbell, oggi membro del Consiglio di sicurezza nazionale di Biden; Liz Economy, esperta di Cina del Council on Foreign Relations e della Hoover Institution alla Stanford University; Alexandr Wang, fondatore e amministratore delegato di Scale AI; Marissa Giustina, ingegnere elettronico quantistico di Google.
Due degli autori, Cohen e Fontaine, avevano scritto a ottobre un saggio su Foreign Affairs sottolineando l’urgenza di un’alleanza tra tecno-democrazie per affrontare i tecno-regimi come la Cina, la Russia, l’Iran, la Corea del Nord, Cuba e il Venezuela in varie campi. Tra questi il riconoscimento facciale e vocale, la tecnologia 5G, i pagamenti digitali, le comunicazioni quantistiche e il mercato dei droni commerciali.
LA NATURA DELLA SFIDA
“La leadership tecnologica dell’America è fondamentale per la sua sicurezza, prosperità e stile di vita democratico. Ma questo vantaggio vitale è ora a rischio, con la Cina che cercando di superare gli Stati Uniti in aree critiche”, si legge. Ci sono tre punti fermi nell’analisi. Primo: la concorrenza “asimmetrica” della Cina, che “si basa su un diverso insieme di regole che le consentono di beneficiare dello spionaggio aziendale, della sorveglianza illiberale e di una distinzione non netta tra i suoi settori pubblico e privato”. Secondo: la “biforcazione” è nell’aria, anche perché l’unica alternativa sembra essere quella di “un mondo in cui le norme non democratiche cinesi hanno ‘vinto’”. Terzo: ci saranno compromessi tra innovazione e sicurezza nazionale.
LE SOLUZIONI PROPOSTE
Cinque, invece, le soluzioni. Prima: creare un centro nazionale di analisi e previsioni tecnologiche. Seconda: catene di approvvigionamento più resilienti investendo in infrastrutture nazionali e “produzione incentrata sugli alleati”. Terza: investire nell’istruzione e aprire all’ingresso di manodopera altamente qualificata (non dimentichiamo che Sundar Pichai, attuale amministratore delegato di Google, è indiano).
Quarta: ridisegnare l’esecutivo in linea con una “nuova era di governo tecnologico”. Quinta (molto in linea con gli appelli al multilateralismo già pronunciati dal presidente Biden): nuove iniziative multilaterali, inclusa un’alleanza di democrazie per coordinare le risposte alla concorrenza tecnologica, una International Technology Finance Corporation e la creazione di “zone di fiducia multilaterali” dove l’integrazione può essere raggiunta in sicurezza. L’alleanza di democrazie proposta si chiamerebbe “T-12” e coinvolgerebbe Paesi come Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia, Regno Unito, Canada, Paesi Bassi, Corea del Sud, Finlandia, Svezia, India, Israele e Australia.
E L’ITALIA?
Già, nel documento non figura l’Italia. Mai citata. Come mai? Colpa degli occhiolini fatti a Pechino? Di un contesto industriale non all’altezza di attirare gli investimenti? C’è solo che sperare in una dimenticanza. Anche perché i Paesi citati nel T-12 (idea presente già nel sopracitato saggio di Cohen e Fontaine su Foreign Affairs) sono 13 e non 12, il che potrebbe suggerire la possibilità di allargare il forum.