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Tunisia 2011-2021, cosa c’è all’origine di una nuova rivolta

Di Giacomo Fiaschi

La situazione in Tunisia, dalla fine della presidenza di Zine el Abidine Ben Alì nel 2011 alle rivolte di oggi con uno stato di crisi che si protrae da circa un decennio. Il commento di Giacomo Fiaschi

Il 14 Gennaio 2011 ebbe fine l’ultraventennale presidenza di Zine el Abidine Ben Alì con il drammatico imbarco su un aereo con destinazione Gedda in Arabia Saudita, dove era stata evidentemente predisposta – non certo in quattr’e quattr’otto – una adeguata accoglienza da parte di quanti pensavano di poter gestire senza troppi problemi una tranquilla sostituzione al palazzo di Cartagine nel quale in cinquantatré anni si erano dati il cambio due soli inquilini.

Quanti avevano in mente un semplice avvicendamento senza grandi cambiamenti non avevano tenuto conto delle dimensioni del malcontento popolare che spinse migliaia di persone, all’indomani del trasferimento forzato di Ben Alì, a scendere in piazza ogni giorno scandendo a gran voce due slogan: “dignità, libertà” e “dégage!” il primo per reclamare la restituzione di ciò che era stato loro sottratto da un regime presidenziale trasformatosi più in tirannide che in dittatura, e il secondo rivolto al primo ministro e a tutto il governo.

La rivolta, culminata nella grande manifestazione detta “Kasbah 2” la sera del 25 febbraio, ebbe fine con la presentazione delle dimissioni del primo ministro Mohamed Ghannouchi e l’annuncio di elezioni dell’assemblea costituente. Il ritorno del leader islamista Rachid Ghannouchi, sbarcato all’aeroporto di Tunisi-Cartagine alle 12 del 30 gennaio 2011 dall’esilio volontario a Londra per riprendere la guida del partito Nahdha, aveva suscitato qualche settimana prima molta apprensione negli animi di una popolazione fiera della propria identità culturale e tradizionalmente lontana da qualsiasi forma di estremismo politico o religioso.

In realtà Rachid Ghannouchi, che nella sua permanenza a Londra fu a fianco, in qualità di consigliere politico per le relazioni con i paesi del mondo arabo-musulmano, dell’ex premier Tony Blair, divenuto nel frattempo advisor autorevolissimo di J. P. Morgan (la potente banca d’affari presente, fra l’altro, in modo significativo nell’asset finanziario della Banque Africaine de Developpement, uno dei massimi bailleur des fonds a sostegno dei grandi progetti dei governi africani), giunse a Tunisi con la missione precisa di attrarre in un contenitore democratico gli islamisti che erano stati oggetto di una repressione feroce esercitata nei loro confronti dal presidente Ben Alì. In questa missione Ghannouchi (oggi presidente del parlamento) poté contare sul supporto del suo vecchio amico John Mac Cain, dal quale si recò in visita a Washington già nel mese di aprile per incontrare anche alcuni importanti rappresentanti dell’amministrazione Obama. Il suo ruolo nel tenere la Tunisia al riparo da possibili incursioni dell’estremismo islamico nel primo delicato periodo del dopo Ben Alì è oggi riconosciuto anche dai suoi avversari politici.

La fase di transizione democratica seguita alle elezioni del 2011 e alle successive del 2014 fu segnata in modo drammatico da due omicidi avvenuti con la tecnica del killeraggio: il primo fu quello del leader della sinistra laica Chokri Belaïd (6 febbraio 2013), mentre il secondo mise fine ai giorni del parlamentare di sinistra Mohamed Brahmi (25 luglio dello stesso anno). Seguirono due stragi terroristiche, quella che si concluse con 24 vittime al Museo del Bardo il 18 aprile 2015 e quella di Sousse, sempre nel 2015, il 26 di giugno, che di vittime ne contò ben 39.

Gli anni successivi, dal 2014 al 2019, furono contrassegnati dalla messa in atto di un elevato livello di misure di sicurezza che impegnarono oltre misura i governi, le forze dell’ordine e dell’intelligence nella sorveglianza e nella prevenzione. Cosa che pose in secondo piano le riforme economiche che sarebbe stato necessario adottare per la prevenzione di quella implosione sociale evocata dallo stesso Rachid Ghannouchi già nel febbraio 2019 come nuova, temibile emergenza del paese dovuta alla mancata attuazione di un programma di riforme sempre promesse e mai attuate. Una mancata attuazione che non solo ha suscitato il crescente malumore popolare, ma che ha anche messo a dura prova quella comprensione delle istituzioni finanziarie internazionali (in particolare il Fmi e la Banque Africaine de Developpement) grazie alle quali, come ricordava recentemente Marwane Abassi, governatore della Banca Centrale, il paese è riuscito ad evitare il default.

La pandemia da Covid-19 ha spinto ulteriormente il paese in una crisi che ha prodotto effetti disastrosi in una società civile già esasperata dalla incapacità dei governi alternatisi negli ultimi cinque anni ad adottare misure in favore di uno sviluppo regionale indispensabile per il rilancio dell’economia e dell’occupazione. Uno sviluppo negato da gruppi familiari, denunciati nel luglio 2019 in una intervista a Le Monde dall’allora rappresentante diplomatico della Ue Patrice Bergamini come principali responsabili, con l’esercizio da parte loro di un monopolio illegale, del mancato sviluppo delle economie locali.

La morte del presidente in carica Beji Caïd Essebsi, avvenuta il 25 luglio 2019, a meno di sei mesi dalla scadenza del mandato e delle elezioni legislative e presidenziali previste nei mesi di ottobre e novembre dello stesso anno, ha segnato l’inizio di una nuova fase critica nella vita politica e sociale del paese. Dall’insediamento del parlamento uscito dalle urne delle elezioni politiche frammentato in una miriade di partiti nel quale la maggioranza relativa è stata raggiunta da Nahdha con poco più del 20% dei voti, si sono alternati due governi, il primo dei quali, con a capo Elyes Fakhkakh è crollato miseramente, travolto da scandali di ministri in odor di corruzione, dopo poco più di cinque mesi dal suo insediamento, mentre quello attuale di Hichem Mechichi è stato costretto, dopo neanche sei mesi, ad un rimpasto che ha visto la sostituzione di ben undici ministri.

Nel frattempo la crisi ha messo in ginocchio milioni di persone già provate dalle misure restrittive prese per contrastare la diffusione del virus pandemico. Le famiglie non arrivano alla fine del mese, mentre già da più di un anno sono ripresi gli imbarchi illegali verso Lampedusa da parte di un numero sempre crescente di giovani che non credono più nell’avvenire del loro paese. La corruzione che durante il regime di Ben Alì era gestita in modo monocratico dalla famiglia presidenziale sotto il diretto controllo della potentissima first lady Leila Trabelsi e dei suoi familiari, oggi pur essendo ridotta quanto alle dimensioni del volume di affari, si è diffusa nei mille rivoli di una pubblica amministrazione che par creata apposta per favorirla e, in un certo senso, per istituzionalizzarne le dinamiche con il concorso dei famigerati gruppi familiari che continuano ad esercitare in modo sempre più persuasivo un vero e proprio controllo monopolistico del territorio.

Un tale stato di cose, che si protrae ormai da un decennio, ha di fatto paralizzato la vita sociale e soprattutto economica dell’unico paese nel quale, dopo l’effimera stagione delle cosiddette “primavere arabe”, si è instaurato un regime democratico. Un regime messo tuttavia in serio pericolo dalla persistenza di una corruzione che lo sta paralizzando.
Oggi la Tunisia ha bisogno urgente di una riforma della pubblica amministrazione che stabilisca ed imponga con fermezza regole standard e trasparenti dei processi decisionali, un “basic standard setting in public administration”, per usare un’espressione cara al professore Massimo Balducci, autorevole esperto in materia, che è lo strumento principale per porre rimedio a questa situazione e per garantire, nel contempo, ai cittadini uno stato di diritto che permetta loro di poter esercitare liberamente mestieri e professioni, dar vita ad imprese e dare concretamente il via ad uno sviluppo dell’economia locale senza il quale allo stato di default non mancherà altro se non una certificazione ufficiale.

Senza iniziative di questo tipo, che dovrebbero essere sostenute e promosse, se non addirittura imposte, da quelle stesse istituzioni finanziarie internazionali evocate dal governatore della Banca Centrale Marwane Abassi le quali peraltro non sarebbero certo le ultime a risentirne positivamente, non ci sarà verso di uscire dalla spirale che porta al precipizio. Le manifestazioni di protesta di questi giorni non sono altro che un grido di dolore di gente che soffre per davvero, e invano si stanno dando da fare le intelligences nazionali e straniere per cercare di capire “chi c’è dietro”.

Dietro non c’è nessuno se non un malcontento trasformatosi in rabbia, al quale se non vengono date risposte non repressive ma positive e propositive, seguirà solo il caos dal quale usciranno tutti sconfitti.

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