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Tunisia, salvate il soldato Saïed. Cronaca di una crisi

Di Giacomo Fiaschi

In Tunisia nella notte tra il 26 e il 27 gennaio si è votata la fiducia ai nuovi ministri del governo guidato da Hichel Mechichi, un vero e proprio rimpasto. Ma a mettere un freno è arrivato il Presidente della Repubblica, pronto a fermare chi sia anche solo sospettato di corruzione o conflitto di interessi

Sulla fiducia che il Parlamento tunisino ha dato pochi minuti prima della mezzanotte di martedì 26 gennaio, al termine di una estenuante seduta plenaria, ai nuovi undici ministri nominati dal capo del governo Hichem Mechichi con un rimpasto ed una riorganizzazione dei ministeri di proporzioni tali da poter considerare il suo governo come un vero e proprio Mechichi-bis, aleggia minacciosa l’ombra del palazzo di Cartagine, dal quale il presidente della repubblica Kais Saïed (nella foto) ha fatto sapere che non permetterà a nessun nuovo membro del governo che sia anche solo sospettato di corruzione o di conflitto di interessi di varcarne la soglia per la cerimonia del giuramento, prevista dalla Costituzione.

I difficili rapporti fra Saïed e Mechichi non sono certo una novità, ed altrettanto dicasi di quelli con tutti i partiti politici, e in particolare con quelli i cui rappresentanti siedono nel parlamento monocamerale del Bardo, l’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo.

Per cercare di comprendere meglio questo stato di cose è necessario ripercorrere, sia pure per sommi capi, un po’ di cronologia tratta dal diario di bordo della politica tunisina degli ultimi tempi.

In effetti, la dichiarazione di guerra al sistema politico pronunciata mercoledì 23 ottobre 2019 nel discorso al Parlamento riunito in assemblea plenaria, presenti tutti i rappresentanti delle diplomazie internazionali non lasciava dubbi sulle reali intenzioni di Kais Saïed, terzo presidente della seconda repubblica tunisina eletto al secondo turno delle elezioni presidenziali tenutesi in prima battuta il 15 settembre e in seconda il 13 ottobre.

Che non fosse facile, in una repubblica sostanzialmente parlamentare così come stabilita dalla nuova costituzione del 2014, stabilire e mantenere un rapporto equilibrato fra un parlamento titolare del potere legislativo, un capo dell’esecutivo al quale solo una maggioranza parlamentare può dare o togliere legittimità, e un Presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo, fu chiaro sin dall’inizio.

E questo equilibrio fu raggiunto e portato avanti, dal 2015 al 2019 soprattutto grazie da una parte alla consumata esperienza politica e diplomatica dell’ultraottantenne Beji Caïd Essebsi, primo presidente eletto e rimasto in carica sino al 25 luglio 2019, giorno della sua dipartita da questo mondo, e dall’altra alle non comuni competenze nel gestire gli affari politici, maturate soprattutto dal 1988 al 2010 negli anni dell’esilio londinese a fianco di Tony Blair, di Rachid Ghannouchi, fondatore del partito islamista Nahdha, uscito vincitore con quasi il 40% dei voti alle elezioni del 23 ottobre 2011 e che, dopo essere stato sconfitto dal partito laico-liberal di Essebsi, Nidaa Tounes, tornò ad essere il partito di maggioranza relativa un anno più tardi a causa della scissione di Nidaa Tounes avvenuta per iniziativa di uno dei suoi massimi esponenti, Mohsen Marzouk il quale diede vita alla nuova formazione politica Machrou Tounes.

Il tormentato clima politico degli anni che seguirono mise in crisi i maggiori partiti, e in particolar modo il partito Nahdha, all’interno del quale cominciarono a farsi sentire le correnti delle varie anime. Il decimo congresso del partito islamista, inaugurato con una scenografia maestosa allestita nel palazzo dello sport di Rades, il centro portuale alle porte della capitale, il 20 maggio 2016 vide la partecipazione dello stesso presidente Essebsi al quale era stato riservato il posto d’onore sul palco a fianco del capo del partito Ghannouchi il quale, pur confermato dal congresso alla testa del partito, vide naufragare il suo progetto di riforma del partito stesso, fortemente osteggiato dalla corrente facente capo ad alcuni dirigenti, che diede vita ad una logorante guerra intestina culminata nel 2019 con il mancato sostegno al candidato alla presidenza del candidato ufficiale del partito stesso Abdelafattah Mourou, escluso al primo turno delle presidenziali (dove arrivò terzo) che videro perciò contrapposti Kais Saïed, candidato indipendente e docente in pensione di diritto costituzionale, e Nabil Karoui il tycoon tunisino patron di Nessma TV, socio dal 2009 in quest’impresa di Tarek Ben Ammar, il finanziere e produttore televisivo e cinematografico franco-tunisino, e Silvio Berlusconi.

Nabil Karoui fu arrestato dietro mandato del giudice istruttore del polo finanziario del tribunale Tunisi in piena campagna elettorale, il 23 agosto 2019, per sospetta evasione fiscale e sospetto riciclaggio a seguito di una denuncia da parte della Ong I Wtach, filiale tunisina della Ong tedesca Tranparency International, e rilasciato a seguito della sentenza della Corte di cassazione che dichiarò illegittimo il suo arresto a pochi giorni dal secondo turno.

La vittoria schiacciante di Kais Saïed apparve subito scontata e il voto confermò le previsioni con un impressionante risultato del 75% mediante il quale la maggioranza degli elettori volle esprimere la propria disaffezione alla politica dei partiti ai quali aveva già riservato una severa lezione pochi giorni prima con il voto delle legislative, partecipato da un risicato 40% degli aventi diritto al voto, dal quale uscì vincitore il partito di Ghannouchi con una maggioranza relativa di poco superiore al 20%.

Kais Saïed è da tempo nel mirino della stessa intellighenzia tunisina che a suo tempo lo aveva sostenuto in campagna elettorale plaudendo con convinto entusiasmo alla sua elezione plebiscitaria alla Presidenza della Repubblica. E l’accusa è quella più infamante che può essere rivolta a chi, entrato in politica, ha commesso l’errore più imperdonabile, che è quello di essere coerente con sé stesso e mantenere la parola data agli elettori. Un tale comportamento contravviene, infatti, palesemente alla dottrina machiavellica del Principe dove, nel capitolo XVIII (Quomodo fides servanda sit principibus) il genio fiorentino con la celeberrima metafora della golpe e del lione detta le regole della moderna ars gubernandi con queste parole: “Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano. Non può, pertanto, uno signore prudente né debbe osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere”.

Kais Saïed è uomo di cultura e non ignora certamente la dottrina del Machiavelli, peraltro preceduto di mezzo secolo da quell’Ibn Khaldoun, considerato padre della moderna sociologia, che ne anticipò il pensiero tanto da esser non meno impropriamente – dal momento che la cronologia imporrebbe di invertire la posizione dei soggetti – comunemente citato come il “Machiavelli” tunisino. Se, dunque, ha scelto di ignorare questa norma, lo ha fatto con piena avvertenza e deliberato consenso. Ma soprattutto non ha mai fatto né detto niente per mascherare le proprie idee e le proprie intenzioni.

Saïed, del tutto indifferente, per esempio, alla politica distensiva nei confronti di Israele, adottata peraltro di recente dal Marocco che ha seguito la linea dei paesi del Golfo, continua imperterrito a tirar dritto, come se nulla fosse, nella sua dichiarata ostilità verso uno stato nemico di una Palestina della quale continua a sventolar la bandiera tanto da imbarazzare molti degli stessi leader politici palestinesi che gli hanno fatto capire in mille modi di far volentieri a meno del suo soccorso.

Il fatto è che Saïed è, come suol dirsi, sceso in campo con la missione di purificare il suo Paese dalla corruzione e, per l’appunto, da quel machiavellismo con il quale i partiti politici della seconda repubblica hanno caratterizzato il loro agire.

In definitiva, possiamo ben dire che per Kais Saïed non esiste legittimità per una politica che non riconosca il primato dell’etica. Un approccio filosofico di stampo idealistico, neoplatonico se vogliamo, che lo avvicina in modo impressionante ad un altro grande cartaginese, quel Sant’Agostino che nel suo De civitate Dei (Libro IV) ammonisce: “Remota itaque iustitia quid sunt regna nisi magna latrocinia?“

Oggi Kais Saïed è un combattente che da soldato semplice è stato promosso d’un colpo al grado di generale dall’esercito più sgangherato, instabile e voltafaccia di tutti gli eserciti del mondo: il popolo. Saïed si ritrova, così, generale-soldato semplice alla guida d’un esercito scalcagnato, a dover combattere, armato semplicemente dei gradi che gli hanno cucito addosso, una guerra contro un esercito vero, armato fino ai denti e guidato da generali veri, quello della politica alla quale, se vuole vincere davvero la guerra con onore, non resta altro da fare che salvarlo.

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