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Sulle tasse Draghi parte con il piede giusto. L’analisi di Baretta

Il lavoro che si dovrà fare per realizzare una buona riforma fiscale è evidentemente molto e non facile. Ma quanto sentito oggi fa presagire un buon inizio. Il commento dell’ex sottosegretario al Mef, Pier Paolo Baretta

La riforma fiscale è entrata, come era prevedibile, nel discorso programmatico (e dunque, nell’agenda) del neo presidente del Consiglio. Mario Draghi ha esposto dei concetti generali, che, però, offrono prime indicazioni e linee guida. A cominciare dal contesto entro il quale egli colloca la questione fiscale, denunciando i limiti di un approccio congiunturalista (“Non è una buona idea cambiare le tasse una alla volta”).

Ciò vale per tutte le riforme che necessitano di: “una visione a tutto campo che richiede tempo e competenza”. Il fisco, in particolare, è materia complessa e le sue implicazioni incidono direttamente sulla vita delle persone. Ciò porta Draghi, coerentemente con la sua formazione ed esperienza, a valorizzare un approccio metodologico “scientifico”.

Ricorda la commissione Visentini e cita, non casualmente, il caso della Danimarca dove, nel 2008, la riforma fu predisposta da una commissione di esperti.
Ma le citazioni non riguardano soltanto il metodo. Nel caso della Danimarca l’esito di quella riforma fu una riduzione della aliquota marginale, ma anche un innalzamento della soglia di esenzione. È una prima indicazione di merito importante. Modificare, infatti, l’aliquota marginale è il modo più diretto che ha la politica per incidere sugli equilibri sociali.

Le tasse sono, infatti – assieme alle retribuzioni – il regolatore della distribuzione del reddito e del potere di acquisto. Al contempo, la soglia esente rappresenta il tasso di attenzione alla fascia meno fortunata della società ed è, assieme alle politiche di welfare, l’intervento più diretto sulla povertà. Ma se associamo a queste suggestioni il fatto, ricordato da Draghi, che fu con la riforma Visentini che si introdusse l’imposta sulle persone fisiche e il sostituto d’imposta per i redditi da lavoro dipendente, intravvediamo già un itinerario, peraltro esplicitato poche righe dopo: la riforma dell’Irpef è necessaria, ma deve servire a ridurre il peso delle tasse conservando la progressività.

Nessuna traccia di flat tax, ma anche nessuna rinuncia o incertezza alla necessità di riformare. Tutto si tiene, dunque. Se poi prendiamo sul serio – e nel caso di Draghi le parole pesano – l’affermazione tutta politica che “un intervento complessivo rende anche più difficile che specifici gruppi di pressione riescano a spingere il governo ad adottare misure scritte per avvantaggiarli”, possiamo dire che il lavoro che si dovrà fare per realizzare un buona riforma fiscale è evidentemente molto e non facile, ma è un buon inizio.



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