Al centro della nuova politica mediorientale americana c’è la combinazione di due scelte di fondo. La prima è quella di ricostruire il rapporto con l’Iran. La seconda è in favore del sostanziale svuotamento dall’interno della strategia sfociata nei cosiddetti accordi di Abramo. L’analisi di Germano Dottori, consigliere scientifico di ”Limes”
Anche in Medio Oriente, il criterio fondamentale della politica abbracciata dal presidente Biden sembra essere il desiderio di ribaltare l’approccio prescelto dal suo controverso predecessore. La circostanza non è sorprendente: la gran parte delle mosse cui stiamo assistendo era stata infatti in qualche modo annunciata durante la campagna elettorale dello scorso autunno.
Alla radice c’è la stessa inversione di priorità che abbiamo osservato nella postura recentemente abbracciata dagli Stati Uniti nei confronti della Russia: la ricerca della stabilità sta cedendo lo scettro alla difesa dei diritti umani, il rispetto della sovranità ad una più penetrante ingerenza negli affari interni degli Stati di cui non sia gradita la condotta.
Sostanzialmente, si tratta di un “macchina indietro tutta” rispetto agli ultimi quattro anni, il cui successo è peraltro tutt’altro che sicuro, perché il mondo è cambiato e quanto Trump ha fatto non è rimasto privo di seguito, ma ha generato potenti interessi al consolidamento di alcune fra le sue realizzazioni di maggior impatto.
Al centro della nuova politica mediorientale americana c’è la combinazione di due scelte di fondo. La prima è quella di ricostruire il rapporto con l’Iran. La seconda è in favore del sostanziale svuotamento dall’interno della strategia sfociata nei cosiddetti accordi di Abramo, con i quali l’ultima amministrazione repubblicana aveva cercato di ricostruire su basi conservatrici l’ordine politico regionale.
Non tutto sta andando secondo le aspettative, ma la linea seguita è abbastanza chiara. Biden ha aperto nei confronti di Teheran, che però ha posto condizioni, a loro volta prima respinte e poi accettate dall’amministrazione americana. Per tornare a trattare, in particolare, gli iraniani pretendevano da Biden la preventiva cancellazione delle sanzioni imposte contro di loro da Trump nel quadro della cosiddetta politica della “massima pressione”.
Malgrado la disponibilità dimostrata infine da Washington ad assecondare questa richiesta, Biden ha però dovuto fare i conti con tutta una serie di ulteriori iniziative non amichevoli. Subito dopo la loro cancellazione dalla lista delle organizzazioni che gli americani considerano terroristiche, gli Houthi hanno infatti ripreso ad attaccare gli aeroporti sauditi. Dopo l’uccisione di un contractor americano, milizie filoiraniane hanno inoltre scagliato razzi contro la Zona Verde di Baghdad in cui si trova anche l’ambasciata degli Stati Uniti, senza peraltro far danni. Di qui, la decisione della Casa Bianca di ordinare lo strike che nella notte tra il 25 ed il 26 febbraio scorso avrebbe ucciso 17 persone in una località siriana non lontana dalla frontiera con la Repubblica Islamica.
L’obiettivo di Biden naturalmente non è la preparazione di un attacco all’Iran, ma lo stabilimento di una forma di deterrenza che non chiuda la porta del negoziato con Teheran, ma ne renda al contrario possibile l’apertura anche in questo periodo in cui le controparti persiane si preparano alle elezioni presidenziali che sceglieranno il successore del riformista Hassan Rouhani. Una prova di forza circoscritta e “gestita” può infatti anche fungere da preliminare alla futura trattativa, tanto più se nel frattempo, come sta accadendo, Biden indebolisce l’uomo forte di Riad, Mohammed bin Salman, che è particolarmente inviso a Teheran e più in generale a tutta la galassia dell’Islam politico sciita e sunnita.
La nuova amministrazione americana ha in effetti compiuto un passo particolarmente significativo, autorizzando la pubblicazione delle conclusioni di una inchiesta condotta dalla propria intelligence che ha attribuito ad MbS un ruolo di primo piano nel brutale assassinio di Jamal Khashoggi avvenuto nel consolato saudita di Istanbul il 2 ottobre 2018.
A quanto si dice, Biden ne avrebbe anticipato i contenuti in una conversazione telefonica intrattenuta con re Salman, sulle cui effettive condizioni di salute peraltro si specula praticamente dal giorno stesso della sua ascesa al trono. Con questa mossa, la Casa Bianca è entrata con forza nelle dinamiche della politica interna saudita, con il probabile intento di modificare la linea di successione dinastica ed allontanare MbS dal potere.
Va ricordato come MbS sia stato assieme a Benjamin Netanyahu il principale interlocutore di Jared Kushner nell’allestimento del complesso schema che ha portato alla firma degli accordi di Abramo conclusi con Bahrein ed Emirati Arabi Uniti, cui avrebbero fatto poi seguito quelli che hanno visto protagonisti il Sudan e il Marocco. Se si aggiunge al quadro la riapertura delle relazioni tra Stati Uniti ed Autorità Nazionale Palestinese, i contorni del disegno politico perseguito si precisano ancora più nitidamente.
Naturalmente, non è detto che le intese dei mesi scorsi, valse ad Israele il riconoscimento di ben quattro paesi arabi, vengano distrutte. Possono però essere private di parte essenziale della loro valenza, sempre ammesso che la politica di Biden riesca nei propri intenti, cosa che non può essere affatto data per scontata. Non solo perché con la politica regionale americana interagisce la sfida lanciata dai conservatori iraniani ai loro avversari, ma soprattutto perché i paesi che maggiormente hanno beneficiato della svolta trumpiana non paiono intenzionati a rimanere inerti.
Al contrario, si ha notizia dell’intenzione di alcuni di loro – in particolare, Israele, Bahrein, Emirati Arabi Uniti e la stessa Arabia Saudita – di dar presto vita ad una vera e propria alleanza militare, che renderebbe più difficilmente reversibili i cambiamenti verificatisi l’anno scorso.
Per vanificare questi sforzi, dovrebbero essere avvicendate più o meno contestualmente le leadership di ben quattro paesi: un’impresa non impossibile, ma certamente complessa anche per gli Stati Uniti. È attualmente impossibile azzardare previsioni più precise su come andrà a finire. L’unica apparente certezza è l’inizio di una corsa contro il tempo, che opporrà tra loro nei prossimi mesi sostenitori e nemici dell’ordine mediorientale abbozzato da Trump. Vedremo con quali esiti.