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Da Washington DC a Berlino, Sapelli spiega chi vuole Draghi a Chigi

Investimenti, catene del valore, debito pubblico. Mario Draghi arriva con una missione ben precisa e non è solo Bruxelles a volerlo ma anche (di nuovo) Washington DC. Il commento di Giulio Sapelli

Con l’incarico conferito a Mario Draghi dal Presidente della Repubblica Italiana per tentare di dar vita a un nuovo governo parlamentare, si può porre termine a un ciclo della circolazione disgregata in corso delle classi politiche italiane nel tempo della pandemia, nella deflazione e nella caduta degli investimenti diretti alla crescita e a favore, invece, di quelli diretti alla riproduzione del solo consenso politico.

La stampa internazionale continuava ormai da tempo a sottolineare che la crisi decisionale e strategica italiana poneva a rischio ciò che si potrebbe  generare  grazie alla avvenuta mutualizzazione del debito. Una mutualizzazione che potrebbe essere l’inizio di una politica di investimenti in capitale fisso, generatori di profitto e di lavoro, iniziando in tal modo a prevenire gli effetti sociali devastanti della crisi pandemica.

Salvezza sanitaria, salvezza economica, salvezza morale non possono che andare di pari passo. L’Italia, sino a ora, non ha presentato il programma che tutti attendono e che molti Stati hanno già predisposto: un programma di investimenti, di procedure snelle e rapide, di cantierizzazioni. Un crono-programma comprensivo anche dei saldi di spesa previsti.

Senza tutto questo la cuspide dell’Ue non potrà mai procedere alla distribuzione delle risorse. Per questo Matteo Renzi, tra un viaggio in Arabia Saudita e una seduta in Parlamento, ha provocato una crisi di cui è inutile discettare.

Occorre concentrarsi sul risultato ottenuto sotto la spinta della necessità della centralizzazione capitalistica. Mario Draghi può garantire il processo di generazione degli investimenti.

In primo luogo per  la garanzia politica, anche se non eletto al Parlamento (la poliarchia ha le sue regole). Offre una garanzia non solo all’Ue ma altresì agli Usa, grazie al ruolo da lui svolto in una Bce alla cui nomina fu appunto chiamato su diretta pressione della più grande potenza capitalistica del mondo, preoccupata dalla deflazione europea e dalla pressione cinese sull’Ue e su taluni Stati firmatari dei trattati europei. Una nomina provvidenziale nel breve termine: primum vivere, deinde philosophari.

La fine del governo Conte è la precondizione perché le catene produttive che legano l’Italia all’industria mondiale e ai flussi logistici transazionali non si interrompano, e che le straordinarie conquiste algoritmiche e quantistiche possibili con la prossima nuova corsa allo spazio possano essere  applicate nel processo produttivo delle imprese e dei loro servizi avanzati.

Solo la generazione di valore capitalistico può compensare la necessità dell’aumento del debito pubblico europeo necessario per sostenere socialmente la ripresa del dopo pandemia. Una politica possibile se coordinata tar gli Stati firmatari dei trattati europei, e diretta a procedere nella continuità della centralizzazione capitalistica e quindi della catene di fornitura dei nodi produttivi europei e mondiali che hanno nell’ Italia un punto di snodo delicatissimo tra Est e Ovest, tra Sud e Nord del mondo.

La centralizzazione produttiva è la base della centralizzazione politica e istituzionale, sempre più necessaria in una Europa che ha visto dopo il Trattato di Lisbona un mutamento sempre più marcato del pensiero politico-economico tedesco che è alla base della trasformazione graduale ma indispensabile di tutta la politica economica europea.

La rapidità di soluzione della crisi governativa e la scomparsa definitiva del nocciolo duro del governo Conte sono, in Italia, la precondizione indispensabile perché ciò si realizzi. Poi si penserà a come meglio riorganizzare la ripresa economica e sociale e la pienezza della vita parlamentare, che deve rimanere il fulcro, nonostante la nuova nomina di un premier non eletto, della circolazione delle classi politiche in Italia, pena la fine della Repubblica.

Di qui la necessità di definire nel modo più chiaro possibile modi e tempi in cui l’emergenza si esercita e si eserciterà e in cui sarà possibile ritornare a un sistema politico democratico pienamente legittimato, così come pienamente efficiente.

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