Se l’opposizione è la misura della democrazia nei momenti in cui il potere di chi governa diventa più pericoloso, negli ultimi quattro anni gli Usa hanno dato una grande prova di resistenza. Pubblichiamo un estratto tratto dal libro “L’America di Biden. La democrazia americana del dopo Trump”, Rubbettino, di Matteo Laruffa
Nelle elezioni dello scorso novembre e negli ultimi quattro anni la democrazia americana ha dato prova di essere ancora una volta più forte e resiliente di quanto molti si aspettavano.
Alle elezioni presidenziali, svolte nelle circostanze eccezionali imposte dalla pandemia del Covid-19, si è registrato un enorme aumento del voto via posta e la più alta partecipazione dell’ultimo secolo (hanno votato il 66,4% degli aventi diritto, ossia il 10% in più rispetto al 2016).
Nella transizione, che è stata il più deleterio dei colpi di coda della politica trumpiana, prima alcuni degli esponenti repubblicani e poi le corti, hanno riconosciuto la correttezza del processo elettorale e quindi il voto degli americani ha contato di più dell’ostinazione del presidente uscente.
In poche parole, le elezioni più complesse dell’ultimo secolo sono andate a buon fine, dimostrandosi free e fair (trad.: libere e leali). La democrazia americana ha dimostrato di essere ancora viva, non ostaggio di un presidente sconfitto e pronta a rinnovarsi. Come scritto nella Dichiarazione d’indipendenza, continua a valere il principio secondo il quale: “Governments deriv[e] their just powers from the consent of the governed” (trad.: I governi derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati).
Inoltre, nei quattro anni della scorsa presidenza le forme di opposizione e di attivismo politico sono cresciute quantitativamente e qualitativamente, permettendo ai cittadini di tornare a partecipare alla vita politica. Nel periodo della presidenza Trump si sono svolte le più ampie manifestazioni politiche della storia americana.
Scorrendo la lista dei movimenti di protesta più partecipati degli ultimi cento anni negli Usa si nota che le prime voci sono relative a proteste avvenute nell’era Trump e spesso contro Trump. Figurano, in ordine, le proteste contro la violenza razziale (iniziate dopo la morte di George Floyd nel 2020), la marcia delle donne (nata il giorno dopo il giuramento dell’ex Presidente nel 2017, in risposta alle affermazioni sessiste del presidente), il movimento contro la diffusione delle armi (nel 2018), la marcia per la scienza (avvenuta nel 2017 contro lo scetticismo dimostrato dall’amministrazione Trump nei confronti della comunità scientifica su temi come il riscaldamento globale).
Se l’opposizione è la misura della democrazia nei momenti in cui il potere di chi governa diventa più pericoloso, negli ultimi quattro anni gli Usa hanno dato una grande prova di resistenza.
La democrazia americana non è morta, ma ha avuto la sua “notte”. Un declino iniziato ben prima del 16 giugno 2015, quando il tycoon lanciò la sua candidatura alle primarie repubblicane. Le origini della fragilità contemporanea delle democrazie si rinvengono nel momento in cui la storia dell’Occidente ha iniziato a tingersi dell’incertezza dell’incubo del terrorismo (sin dall’11 settembre 2001) e delle periodiche crisi economiche (sin dal 2008).
Come in molti altri sistemi politici scossi dal consenso ottenuto dai movimenti populisti, gli elettori americani avevano visto in Trump una leadership nuova, lontana dai palazzi della politica, inflessibile nel voler difendere la nazione, con il volto di chi non disdegna i toni della rabbia e si dice pronto a fare a pugni per restituire il benessere perduto ad intere fasce della popolazione, impoverite dalla competizione economica globale.
Tutti segni ricorrenti nel viscerale rapporto tra leader ed elettori che accomuna i Paesi democratici dove le varie facce del populismo hanno cambiato la forma e la sostanza della politica, lasciando gli elettori in balia tra proteste e promesse.