Dietro il riassetto della politica italiana intorno alla figura di Mario Draghi c’è una congiuntura internazionale che parte da Washington DC. Anche da lì nasce il nuovo arco costituzionale attorno all’euro-atlantismo e al rigetto internazionale del populismo. L’analisi di Germano Dottori, consigliere scientifico di Limes
La crisi politica apertasi in Italia lo scorso 26 gennaio con le dimissioni del presidente del Consiglio Giuseppe Conte non è stata soltanto il frutto di circostanze interne. Le ambizioni personali e di gruppo vi hanno avuto certamente un ruolo, ampiamente investigato dai media del nostro Paese. Ma assieme ad altri fattori, che sono invece di natura prettamente internazionale.
Alcuni sono stati colti da un certo numero di analisti, altri sono invece rimasti sullo sfondo, più defilati, attirando l’attenzione di pochi. Si è molto parlato di Europa, ad esempio, e di sicuro non a torto. Sono infatti in ballo ben 209 miliardi di euro, per ottenere i quali serve confezionare un piano convincente da sottoporre al vaglio delle autorità dell’Unione Europea.
Queste risorse sono già state iscritte nel bilancio dello Stato e perderle rappresenterebbe uno shock insopportabile per un’economia che nel 2020 si è contratta dell’8,8% e necessita al più presto dell’innesco di un meccanismo di ripresa mentre la pandemia morde ancora e minaccia anzi nuove fiammate.
A dispetto della gravità della situazione, il documento preparato dal governo uscente ed attualmente all’esame del Parlamento è stato costruito al di fuori di qualsiasi schema di concertazione con Bruxelles, sulla base di parametri diversi da quelli raccomandati in ambito comunitario. Viene considerato insoddisfacente da molti. Tale circostanza ha reso più evidente il rischio di una bocciatura, alimentando preoccupazioni.
Questo elemento – ancorché ben presente nel calcolo dei maggiori attori politici coinvolti nella crisi – non ha tuttavia pesato tanto sulla caduta del Conte II quanto sulla soluzione alla quale si è pensato per il dopo. Sul nome di Mario Draghi è stato infatti possibile raggiungere una convergenza anche perché il suo arrivo a Palazzo Chigi è visto come la migliore garanzia rispetto al pericolo che all’Italia vengano rifiutati i fondi promessi dall’Ue.
A scatenare il processo che ha condotto al collasso l’esecutivo giallo-rosso sembra essere stato piuttosto quanto si è verificato negli Stati Uniti tra il 3 novembre e il 20 gennaio scorsi. Al termine della più drammatica transizione della storia politica americana, Trump è uscito di scena ed al suo posto è arrivato il democratico Joe Biden.
Per quanto Washington sia lontana, quanto vi accade è destinato a ripercuotersi prima o poi anche da noi. Lo dimostra bene quanto è successo negli anni della nostra cosiddetta Seconda Repubblica, durante i quali i periodi di asimmetria cromatica tra le amministrazioni americane e i governi italiani sono stati l’eccezione piuttosto che la norma.
Dalla primavera del 1994 al 2017 – parliamo di 23 anni – si sono registrate solo quattro fasi di disallineamento, in corrispondenza del Berlusconi I, durato pochi mesi; dello scorcio conclusivo dell’Amato II, agli inizi del 2001; del Prodi II, rimasto al potere per meno di due anni; e dell’ultimo governo presieduto dal Cavaliere, disarcionato nel novembre 2011 al termine di quasi un triennio di gravi attriti con la squadra diretta da Barack Obama.
Al computo non va aggiunto il mandato di Trump, dal momento che il magnate newyorkese si è interessato pochissimo alle vicende del nostro paese, mantenendo relazioni pragmatiche sia con Paolo Gentiloni che con Conte, quest’ultimo tanto in versione giallo-verde quanto in configurazione giallo-rossa.
Naturalmente, non è plausibile che un’amministrazione così giovane come quella di Biden possa esser intervenuta negli affari di casa nostra sino al punto di provocare la caduta del governo. È però verosimile che all’interno del nostro sistema politico vi sia stato chi ha pensato di divenire parte attiva di un processo di riallineamento ai nuovi equilibri americani percepito comunque come ineludibile, magari allo scopo di acquisire o rinverdire le proprie credenziali.
Va sottolineato altresì come il clima da guerra civile strisciante affiorato in America abbia potuto acuire l’urgenza di promuovere la rimozione di un premier che aveva cercato sin dal proprio insediamento di stabilire un’interlocuzione privilegiata con Trump, per sostituirlo con una personalità più vicina al mondo dei liberal d’Oltreoceano.
È emblematico che aspre polemiche sulla mancata presa di distanza del premier all’indomani dell’assalto al Congresso americano abbiano caratterizzato lo scenario che ha preceduto l’implosione del Conte II.
Draghi soddisfa al meglio anche questa esigenza di discontinuità. È infatti un economista keynesiano con importanti trascorsi accademici a Boston, un progressista che gode di un’ottima reputazione presso tutti coloro che fecero parte delle amministrazioni Obama.
Sarà sostenuto da tutti coloro che intendono assicurarsi l’accesso al nuovo arco costituzionale in gestazione attorno al rigetto internazionale del populismo, che sarà atlantista ed europeista come quello storico. Meno comprensibile appare la scelta di altri che hanno per il momento deciso di star fuori dal futuro esecutivo, probabilmente per difetto di comprensione del vincolo che per noi rappresenta quanto accade negli Stati Uniti, nostro maggior alleato. Quanto durerebbe oggi un governo italiano di centro-destra?
Concludendo: un’indubbia sensibilità agli assetti politici esterni ha ispirato la decisione di Matteo Renzi di sferrare l’attacco che ha provocato il crollo della compagine ministeriale guidata da Conte. Come questo successo verrà sfruttato è ancora presto per dirlo, ma è già certo che l’ex sindaco di Firenze non potrà ottenere una delegazione ministeriale più ampia di quella che aveva nel precedente esecutivo.
Ecco perché non è affatto da escludere che il leader di Italia Viva stia davvero puntando ad un incarico internazionale di prestigio per il quale il sostegno americano è essenziale, non ultimo per superare le resistenze che talvolta le candidature italiane a certe posizioni suscitano nell’Est Europeo. Se non si considera questa dimensione più ampia, parecchi aspetti della crisi politica in atto a Roma risultano difficili da comprendere.
*Germano Dottori è Consigliere scientifico di Limes, per cui ha appena pubblicato il saggio “L’Italia e la tempesta americana” ( L’ITALIA E LA TEMPESTA AMERICANA – Limes (limesonline.com). Autore di “La visione di Trump”.