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Draghi e serpenti. Le nuove sfide alla sicurezza dell’Occidente secondo David Kilcullen

Di Lorenzo Mesini

Lorenzo Mesini recensisce The Dragons and the Snakes. How the Rest learned to fight the West, il libro di David Kilcullen, ex ufficiale dell’esercito australiano esperto in counterinsurgency, che vanta una lunga esperienza sul campo in Asia e Medio Oriente e una prestigiosa carriera negli Stati Uniti, al Dipartimento di Stato con Condoleezza Rice e con Petraeus in Iraq nel 2007

Nel febbraio 1993 James Woolsey, nominato direttore della Cia da Bill Clinton, esponeva nella sua audizione di conferma al Senato le principali minacce che gli Usa dovevano prepararsi ad affrontare con la fine della Guerra fredda: proliferazione di armi di distruzione di massa, crescita del terrorismo internazionale, traffico internazionale di stupefacenti, crimine organizzato, rischi ambientali ed energetici, conflitti etnico-religiosi. “Abbiamo ucciso un grande drago – concludeva Woolsey – ma ora ci troviamo a vivere in una giungla infestata da un’impressionante varietà di serpenti velenosi”. Il direttore della Cia aveva anticipato nei suoi tratti essenziali lo scenario strategico che avrebbe caratterizzato il successivo quarto di secolo: la sicurezza degli Stati Uniti non sarebbe stata più minacciata da attori statuali e dalla competizione fra grandi potenze (“draghi”) bensì da un ampio numero di attori non statuali e dai conflitti connessi agli stati falliti (“serpenti”). Gli anni compresi tra la prima e la seconda guerra del Golfo si sono svolti infatti all’insegna della disgregazione dell’ex spazio sovietico in Europa, dello sviluppo del terrorismo internazionale, della crisi numerosi stati asiatici e africani, di interventi umanitari e di peace-keeping, mentre il decennio successivo (2003-2013) è stato caratterizzato dalla Guerra al terrore (in Iraq e Afghanistan) e da numerose operazioni non convenzionali in Asia e Africa.

Oggi la cosiddetta “era Woolsey” si è definitivamente conclusa dopo che si è assistito alla rinascita di grandi potenze statuali in competizione con gli Stati Uniti e l’Occidente – Russia e Cina in primis, seguite da Iran e Corea del Nord – e all’evoluzione degli svariati gruppi armati non statali che hanno appreso come contrastare efficacemente il primato militare e tecnologico occidentale. L’ultimo libro di David Kilcullen (The Dragons and the Snakes. How the Rest learned to fight the West, Oxford University Press 2020) ripercorre le tappe dell’”era Woolsey” e si interroga sulle principali sfide che gli Stati Uniti e l’Occidente si trovando ad affrontare nell’attuale fase di transizione. Kilcullen è un ex ufficiale dell’esercito australiano esperto in counterinsurgency che vanta una lunga esperienza sul campo in Asia e Medio Oriente e una prestigiosa carriera negli Stati Uniti.

Su di essa è importante richiamare l’attenzione per cogliere l’alto profilo dell’autore: dopo aver prestato servizio nell’esercito australiano nel 2005-2006 lavora presso il Dipartimento di Stato americano in qualità di Chief Strategist presso l’Office of the Coordinator for Counterterrorism e contribuisce alla redazione della sezione counterinsurgency all’interno dello US Army’s Field Manual pubblicato nel 2006; dal 2007 al 2008 lavora all’interno dello staff del generale Petraeus durante la controffensiva in Iraq e contemporaneamente è Special Advisor for Counterinsurgency del segretario di Stato Condoleezza Rice. In questa sede ci soffermiamo sugli elementi di maggiore rilievo presenti nel libro di Kilcullen per la comprensione dell’attuale scenario internazionale alla luce della storia militare degli ultimi decenni.

La tesi al centro del volume può essere riassunta come segue: negli ultimi due decenni l’Occidente ha affrontato minacce provenienti da attori statuali e non, i quali hanno finito per assomigliarsi sempre di più. Gli attori statuali hanno adottato tattiche, strumenti e approcci sviluppati dai gruppi terroristici e dai guerriglieri, mentre questi ultimi hanno guadagnato l’accesso a tecnologie, sistemi d’arma e strutture organizzative che precedentemente erano appannaggio esclusivo degli stati (come nel caso di Isis). Per utilizzare la metafora proposta da James Woolsey e ripresa dall’autore nel titolo del libro i “draghi” assomigliano sempre di più ai “serpenti” e viceversa. In molti casi i gruppi armati non statali hanno raggiunto un livello di abilità e precisione pari o superiore a quello della maggior parte degli stati che sono impegnati a combatterli. Kilcullen combina l’utilizzo della teoria evoluzionistica darwiniana con una ricca esperienza maturata sul campo per illustrare come si sono evoluti gli attori e le minacce di natura non statuale (capitolo 2 e 3). La prima guerra del Golfo da un lato ha sancito il trionfo della superiorità militare americana e della relativa concezione specifica della guerra (il dominio del campo di battaglia attraverso il predominio tecnologico e l’integrazione di forze terrestri, aere e marittime); dall’altro ha definito l’ambiente che ha esercitato una particolare pressione evolutiva sugli avversari degli Stati Uniti. Avversari che sono stati costretti ad adattarsi al nuovo contesto (nel caso di Russia e Cina) o ha selezionato i più adatti alla competizione e alla sopravvivenza nel nuovo scenario (come nel caso dei gruppi terroristici a cui è dedicato il capitolo 3).

Il processo evolutivo descritto con grande efficace dall’autore ha contribuito al progressivo declino del primato militare occidentale e al venir meno della sua precedente efficacia sul campo di battaglia, mentre nuovi attori pongono minacce inedite. Kilcullen riprende e applica con profitto la distinzione tra evoluzione in tempo di pace e in tempo di guerra identificata da Stephen Rosen (Harvard): in tempo di pace l’innovazione militare avviene lentamente, guidata dall’osservazione di mutamenti nell’ambiente esterno e dalle ipotesi di natura concettuale formulate top-down in merito alle innovazioni che si reputano necessarie per prevalere nei conflitti futuri; in tempo di guerra l’evoluzione avviene rapidamente bottom-up attraverso il contatto diretto con il nemico e le sconfitte sostenute sul campo.

Di particolare interesse è la ricostruzione offerta dall’autore della traiettoria seguita da Russia e Cina negli ultimi decenni (capitolo 4 e 5). La lezione impartita dagli Usa in Iraq nel 1991 rappresentano il punto di riferimento obbligato delle due potenze, il violento shock che le costringe ad adattarsi, a rinnovare le rispettive organizzazioni militari e a ripensare le propria dottrina strategica. L’adozione combinata di tecniche proprie organizzazioni non statali costituisce il tratto comune dell’evoluzione russa e cinese. Dopo il difficile percorso di riorganizzazione militare intrapreso tra la fine degli anni ’90 e il 2013, la Russia ha sviluppato una specifica combinazione di tecniche militari e non. La liminal warfare russa (come la definisce Kilcullen) si è rivelata sempre più capace di mettere in difficoltà i propri avversari, sfruttandone militarmente le difficoltà politiche e facendo leva politicamente sulle difficoltà militari degli avversari (come emerso nel 2008 in Georgia, nel 2014 in Ucraina e nel 2015 in Siria).

Mentre la liminal warfare prevede escalation di tipo verticale (azioni in uno specifico territorio la cui intensità è sufficiente a perseguire obiettivi chiave senza innescare una risposta militare da parte del nemico) lo sviluppo seguito dalla Cina è di tipo orizzontale e vede l’espansione dello spettro geografico, settoriale e concettuale della competizione tra Stati. La riforma dell’esercito cinese avviata negli anni ’90, il rinnovato impegno marittimo e il progetto delle vie della seta vengono opportunamente discusse dall’autore alla luce del concetto di ‘guerra senza limiti’ coniato dai due ufficiali cinesi (Quiao Liang e Wang Xiangsui) autori dell’omonimo libro nel 1999 (di cui ricordiamo l’edizione italiana prontamente curata dal generale Fabio Mini nel 2001). L’approccio cinese estende il concetto tradizionale di guerra per addizione del più ampio numero possibile di categorie e settori (politico, militare, economico, sociale, infrastrutturale, informativo, criminale, legale, cyber, spaziale, ambientale) e attraverso la loro combinazione (militare, trans-militare, non militare). L’obiettivo è quello di mettere in campo un elevato numero di minacce che gli avversari avranno difficoltà a comprendere, individuare e a neutralizzare per tempo. L’autore richiama l’attenzione sul principale rischio connesso alla “guerra senza limiti”: il rischio, valido tanto per la Cina quanto per i suoi avversari, che le parti siano portate sistematicamente a fraintendere o non comprendere le intenzioni reciproche (dal momento che ogni mossa dell’avversario potrebbe essere equivocamente compresa come un atto di guerra), aumentando la possibilità di una escalation militare.

Kilcullen individua tre possibili approcci strategici attualmente a disposizione degli Stati Uniti: a) il rilancio (double-down) del predominio militare convenzionale americano correlato a un rilancio dell’interventismo liberale e neoconservatore nel mondo; b) la presa d’atto dell’inevitabile declino e dell’insostenibilità del primato americano nel mondo, di cui Obama e Trump si sono fatti interpreti in maniera diversa; c) lo sviluppo di un nuovo modello militare americano incentrato sull’adozione di metodi e tecnologie sostenibili nel lungo termine e che ridefinisca a sua volta l’ambiente entro cui si collocano gli avversari dell’Occidente. Secondo l’autore le prime due opzioni risultano insostenibili nel medio-lungo termine per gli Stati Uniti e presentano meno possibilità di successo della terza opzione. Kilcullen propende per quest’ultima, ispirandosi all’approccio dell’impero bizantino per via della sua capacità di prolungare la sua esistenza politica per mille anni dopo la caduta di Roma. Lo sviluppo di un nuovo modello militare per gli Usa e per i propri alleati deve essere funzionale non ad assicurare il dominio sul campo di battaglia a breve termine bensì a tutelare gli interessi di lungo termine dell’Occidente in un mondo che, come osserva l’autore, non vedrà più il predomino americano nelle forme che aveva assunto alla fine della Guerra fredda.

Il lavoro di Kilcullen ha il pregio non indifferente di offrire un bilancio ponderato della storia militare del mondo dalla fine della Guerra fredda ad oggi, unendo al rigore di una originale analisi concettuale le lezioni apprese alla propria prolungata esperienza sul campo. Il volume non invita solo a ripensare criticamente l’esperienza maturata negli ultimi due decenni in Medio Oriente e in Africa – un compito in sé molto impegnativo – ma invita anche a mettere a fuoco con maggiore chiarezza le sfide che gli Stati Uniti e l’Occidente affrontando nell’attuale fase di transizione storica.

In quest’ottica l’analisi fornita da Kilcullen rappresenta un ottimo punto di partenza per una rinnovata riflessione anche da parte di quegli alleati europei degli Stati Uniti – tra cui l’Italia – che negli ultimi decenni hanno ridotto le risorse dedicate alla propria difesa facendo ampio affidamento sulla deterrenza strategica americana. Come illustra l’autore il mantenimento di capacità elevate in alcune aree chiave (caccia di quinta generazione, difesa missilistica, forze speciali, portaelicotteri d’assalto anfibio, sommergibili, cyber, Sigint) costituisce un presupposto indispensabile per lo sviluppo di un nuovo ed efficace modello militare occidentale. L’esempio fornito al riguardo da alleati come Regno Unito, Australia e Giappone – su cui Kilcullen richiama l’attenzione – rappresenta un valido punto di partenza per il nostro Paese, oggi alle prese con rinnovate e inedite sfide nello scenario mediterraneo, africano e mediorientale.

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