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La Lega e l’Europa. Ritorno alle origini?

Salvini si è detto europeo e con esso i suoi figli. E gli europarlamentari della Lega hanno votato sì al regolamento del Recovery Fund. Ma che succede? L’analisi di Giuseppe Pennisi

 

Il leader della Lega, Matteo Salvini, nei suoi incontri con il presidente del Consiglio incaricato, si è dichiarato europeo e padre di figli anch’essi europei. Ieri 9 febbraio, gli europarlamentari della Lega hanno votato con i loro colleghi europeisti l’approvazione del regolamento per la Recovery and Resilience Facility del Next Generation Eu. Una conversione sulla via di Damasco? Misure tattiche per entrare a fare parte del nuovo Governo in formazione in Italia? O piuttosto un ritorno alle origini?

Ritengo doveroso precisare che, da romano con forti radici siciliane (Acireale) non sono mai stato iscritto alla Lega. Tuttavia, ho avuto frequenti contatti con il movimento in tre occasioni: dopo la fine del primo governo Berlusconi quando una parte politico-culturale del centro-destra era favorevole ad un nuovo accordo con la Lega. All’inizio del XXI secolo quando con alcuni colleghi economisti redigevo il libro Pensioni: guida ad una riforma, la cui prima edizione si esaurì in pochi giorni. E negli ultimi anni, a ragione di interazione professionale e culturale con due colleghi diventati figure di punta della Lega: Alberto Bagnai e Claudio Borghi.

Ed è doveroso ricordare che alla fine degli anni Ottanta quando le varie leghe cominciarono ad apparire nel firmamento politico italiano, si mormorava che venissero incoraggiate e promosse da altri Stati europei, specialmente Germania (in particolare la Baviera) ed Austria in quanto il sostrato politico culturale aveva un “blocco sociale” comune: imprese la cui catena del valore era fortemente integrata orizzontalmente e che avevano istanze comune nell’alleggerimento del peso della regolazione sulle loro attività.

Non so se ci fosse qualcosa di vero o se si trattasse di mere dicerie. Comunque, il “blocco sociale” della Lega si direbbe, in lessico gramsciano, è costituito da imprese, grandi e piccole, fortemente integrate con il resto d’Europa e, quindi, naturalmente “europeiste”. Fu proprio questo blocco sociale a fare sì che la Lega uscisse dal primo  Berlusconi. La determinante fu la proposta abolizione delle così dette pensioni d’anzianità. Nel mondo soprattutto delle piccole e medie imprese, era prassi il pensionamento di anzianità per operai ed impiegati che successivamente continuavano a lavorare per le medesime aziende come collaboratori anche ben oltre l’età del pensionamento di vecchiaia.

Per le due controparti era un gioco win-win, i cui costi, però, gravavano sull’Inps in termini di perdita di contributi. Nel periodo del riavvicinamento graduale della Lega al resto di quello che allora era il Polo delle Libertà, un ruolo non secondario ebbe un centro studi federalisti con base a Padova che aveva ripreso le pubblicazioni di una antica rivista in cui federalismo era inteso sia in senso rosminiano (ossia un’Italia federalista) che spinelliano (ossia un’Europa con prospettive federaliste). Venni invitato un paio di volte a tenere conferenze.

I miei contatti con la Lega si intensificarono durante la stesura del volume Pensioni: guida ad una riforma. Erano essenziali interazione con l’allora ministro del Bilancio, Giancarlo Pagliarini (tanto europeo quanto milanese per ragioni sia familiari sia professionali, nonché molto addentro nella previdenza integrativa) e soprattutto con il suo consigliere dell’epoca, Alberto Brambilla, uno dei maggiori esperti previdenziali italiani, anche lui molto «europeo» nella sua prassi scientifica e professionale.
Veniamo alla più recente interazione con Alberto Bagnai e Claudio Borghi.

Ho incontrato il primo nei “cenacoli” mensili organizzati dalla Fondazione Ugo La Malfa, un centro di studi e riflessioni limpidamente europeista. Ed è un ottimo suonatore di viola da gamba oltre che economista. Ho incontrato il secondo in quanto ambedue collaboratori di una testata cattolica.

Se posso interpretare il loro pensiero, esso si articola su due punti:

a) l’onere eccessivo della regolazione europea sulle attività produttive (una costante del blocco sociale della Lega)

b) la convinzione a torto o a ragione che l’Italia sia entrata prematuramente (ossia senza avere precedentemente effettuato il necessario riassetto strutturale) nell’unione monetaria e che ciò abbia comportato una politica eccessiva di austerità.

In un suo saggio di un paio di anni fa, il politologo Giovanni Orsina ha acutamente documentato che da diverso tempo, i governi si trincerano dietro un “ce lo impone l’Europa” quando devono prendere decisioni impopolari: ciò fa scattare toni anti europeisti anche di maniera se si è all’opposizione.

Non sta certo a me esprimere giudizi o dare patenti in materia di sincerità di europeismo di questo o quello. Ne hanno però ancor meno i titoli i nipoti (come l’attuale segretario del Partito democratico) di coloro che hanno votato contro l’adesione dell’Italia agli accordi di cambio europei (che furono precursori dell’unione monetaria) e coloro che si considerano eredi di Massimo D’Alema che quando fu il primo e unico comunista o post-comunista a poter arrivare a Palazzo Chigi, classificò la Lega come costola della sinistra.

Un esperto di cinema come Walter Veltroni apprezza il capolavoro di René Clair del 1947 Le silence est d’or. Elegantemente, e correttamente, in materia tace. E si occupa d’altro.

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