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Facebook e Google controllano il nostro tempo: lo studio ComScore

Tempo Online

La pandemia ha aumentato la quantità di tempo che gli italiani passano online, consolidando la supremazia delle due aziende “guardiane” dell’accesso a internet. Uno studio ComScore/Sensemakers rivela le cifre

Poche certezze in tempo di pandemia, ma una regna sovrana: gran parte della nostra vita quotidiana si è spostata online. Lavoro remoto, svago e acquisti passano sempre più attraverso uno schermo. Stando ai dati ComScore di dicembre, c’è stata una vera impennata rispetto al 2019. Ma nonostante la molteplicità dei servizi online che siamo abituati a usare, i veri “padroni” del nostro tempo online si contano sulle dita di una mano.

Un nuovo studio ComScore/Sensemakers calcola quali sono i servizi che più catturano la nostra attenzione online, comparando i dati di dicembre 2019 e 2020 – prima e post pandemia. Le app per smartphone si confermano la principale modalità di accesso a internet degli italiani, in quanto il 73% della navigazione accade tramite loro (rispetto al 67% di dicembre 2019). In riduzione il tempo passato a navigare da desktop (dal 22% al 17%) e attraverso il browser del telefono (da 11% a 10%).

Fonte: ComScore MMX Multiplatform, dicembre 2019 vs dicembre 2020, Italia

Quali app, dunque? La più utilizzata è l’onnipresente WhatsApp (un servizio di messaggistica istantanea di Facebook) con 33 milioni di utenti attivi, ossia il 93% degli italiani che navigano via mobile. Seguono in rapida sequenza tre servizi Google (YouTube per i video, Search per la ricerca web, Play per scaricare le applicazioni) rispettivamente a 29, 27 e 25 milioni di utenti. A seguire Facebook stessa, (25), la email di Google (23) e altri servizi dei due giganti di Silicon Valley. Tra le 15 app più usate dagli italiani, solo 4 sfuggono al duopolio Facebook-Google.

Fonte: ComScore Mobile Metrix, dicembre 2020, Italia

A conti fatti, però, secondo ComScore il 50% del nostro tempo online è indirizzato – e gestito – da due sole realtà. E questa tendenza è in crescita.

Fonte: ComScore MMX Multiplatform, dicembre 2019 vs dicembre 2020, Italia

La pervasività di aziende del calibro di Facebook e Google è ben documentata. Esse sono annoverate tra le multinazionali più grandi del mondo, e la loro stessa dimensione basta a soppiantare gran parte dei servizi alternativi; si possono permettere di acquistare la concorrenza (come ha fatto Facebook con Instagram e WhatsApp), imitare i servizi digitali più innovativi (di nuovo Facebook nel caso di Snapchat e le sue stories) e disseminare i propri servizi gratuitamente (Gmail, Google Docs, Google Maps…) finanziandoli con gli immensi proventi pubblicitari.

La questione è annosa. Da una parte questi servizi ci semplificano la vita, consentendoci un grado di produttività e interconnettività superiore. Dall’altra la questione della protezione dei dati, il peso politico e sociale delle piattaforme Big Tech, e la loro capacità di asfissiare ogni potenziale concorrente, per quanto innovativo, e tagliare le gambe a intere industrie. Il controllo del nostro tempo online si traduce, per loro, nella possibilità di poter influenzare le nostre scelte secondo la volontà del miglior offerente – dal prodotto in commercio al politico da eleggere, come ha dimostrato il caso di Cambridge Analytica.

Oggi sta facendo scuola il caso australiano, in cui il governo si è appena scontrato con Facebook e Google per costringerli a pagare le notizie e aiutare a sorreggere l’editoria – un percorso che Canada, USA e UE, solo per citarne alcuni, stanno seguendo con attenzione. Il precedente appena creatosi offre una direzione da seguire per le autorità desiderose di limitare il potere quasi assoluto di Big Tech, moderni Caronte internettiani.

Si avverte, a livello globale, la necessità di regolamentare la sfera digitale, troppo reattiva e capziosa per essere soggetta ai sistemi tradizionali di controllo della concorrenza. Il congresso americano, dopo un’investigazione durata sedici mesi e una discussione pubblica ben più longeva, ha dichiarato l’anno scorso che le compagnie Big Tech possiedono (e abusano di) una posizione dominante; già in campagna elettorale il presidente Joe Biden aveva annunciato di voler limitare il loro strapotere.

Anche l’Europa sta mettendo a punto due “pacchetti” di leggi, il Digital Services Act e il Digital Markets Act, sotto la regia del temutissimo Commissario europeo alla Concorrenza Margrethe Vestager. Come già esaminato su queste colonne, il DSA e il DMA mettono gli USA e l’UE (più pronta a limitare e tassare lo strapotere delle compagnie americane) in rotta di collisione. Eppure la sensibilità sul tema dimostrata dall’amministrazione Biden può offrire più convergenze del previsto.



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