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Così solido, autentico, forte. Follini ricorda Franco Marini

Era così, Marini. Lo era da giovane e lo è rimasto fino alla fine. Così solido, così autentico, così forte. E insieme, così semplice. Astuto quanto è richiesto dalle regole della politica. Leale quanto gli dettava la sua coscienza. Il ricordo di Marco Follini

In queste ore ognuno ha il suo Marini da raccontare. Il leader della Cisl, l’erede di Donat Cattin, il segretario del Ppi, il presidente del Senato, il quasi Capo dello Stato. Frammenti sparsi di un percorso politico a cui in tanti rendono omaggio riconoscendovi una oggettiva grandezza e ritrovandovi anche un più soggettivo pezzo di sé stessi.

Ma io vorrei spingere quei ricordi più indietro, e chiedo venia se per parlare di Franco racconto anche di me. Io ho cominciato facendo il cronista sindacale al Popolo, il giornale della Dc. Seguivamo soprattutto la Cisl, che in quella stagione (74-77) era messa più o meno così. Il segretario era Bruno Storti, il suo antagonista Vito Scalia. Il segretario della Dc Fanfani avversava il primo e sosteneva il secondo. Tra i due colossi c’era una minuscola correntina guidata appunto da uno sconosciuto o quasi: Franco Marini.

Lo conobbi allora, e per quanto potevo (cioè pochissimo) cercai di dargli la maggiore visibilità. Mi sembrava una sfida coraggiosa la sua, quasi temeraria. Storti aveva il controllo dell’apparato, e buoni rapporti con le altre sigle sindacali. Scalia aveva l’appoggio della Dc, convinta e determinata. Ma appunto per questo colpiva la tenacia con cui un giovane alle prime armi osava sfidare i colossi del suo tempo.

Lo faceva con argomenti tutt’altro che ovvi e conformisti. Quando la Cgil sosteneva la bizzarra tesi del salario come “variabile indipendente” Marini diceva chiaro e tondo che si trattava di “una sciocchezza, una follia”. Gli ho sentito spesso fare affermazioni scomode, attirandosi le critiche dei demagoghi e quelle dei conformisti. Lui ne era quasi compiaciuto. E si capiva che su quelle affermazioni stava costruendo un suo percorso che l’avrebbe portato in cima, a dispetto dei pronostici dell’epoca, tutt’altro che propizi.

Aveva le sue furbizie, come è ovvio. Un giorno mi disse “sono un democristiano non in crisi”, e più tardi mi telefonò per dire “scrivila quella frase, così Fanfani è contento”. Ma gli piaceva soprattutto navigare controcorrente e affrontare il mare in tempesta. Lo faceva senza retorica, senza fingere di essere ispirato, senza ostentare l’idea di una missione. La sua grandezza stava semmai nella semplicità con cui sapeva essere autentico, sottratto alle mode e agli artifici a cui tanti dei suoi colleghi stavano sacrificando tutto il loro incenso.

Era così, Marini. Lo era da giovane e lo è rimasto fino alla fine. Così solido, così autentico, così forte. E insieme, così semplice. Astuto quanto è richiesto dalle regole della politica. Leale quanto gli dettava la sua coscienza. Generoso quanto gli veniva da un’ispirazione mai trasformata in retorica. Se potesse ascoltare le voci di quanti lo ricordano oggi con dolore e commozione forse ne sorriderebbe. Ma farebbe male. Il dolore e la commozione di tanti di noi se li è meritati tutti. Anche se esibirli oggi significa un po’ violare il suo codice.

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