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Grillo cita Platone ma Draghi riparta da Aristotele (e dalla classe media)

Di Andrea Longo
grillo draghi

I nostri leader, ove mai davvero tenessero alla democrazia, dovrebbero riflettere su quanto preziosa per essa sia una classe media sana e che abbia la possibilità di divenire operosa. Mi permetto di confidare non solo nelle notorie competenze economiche di Draghi, ma anche nei suoi studi classici, affinché non dimentichi la lezione di Aristotele e agisca di conseguenza, prima che la profezia di Sieyès si rovesci tragicamente e il Terzo Stato divenga, irreversibilmente, nulla. La riflessione di Andrea Longo, professore di Diritto parlamentare presso l’Università La Sapienza

Il sempre più concreto arrivo a Palazzo Chigi di una personalità come Mario Draghi, se da un lato infonde (almeno in chi scrive) speranza per le sorti della Repubblica, dall’altro rinnnova la riflessione su problematiche del nostro Paese tanto profonde quanto trasversali che trascendono lo stato della politica per giungere a quello della socialità stessa; temi che hanno concorso, come causa efficiente  alla nascita di questo (ancora futuro) governo e, nel medesimo tempo, ne rappresenteranno la sua sfida più grande.

Finito il Novecento, e con esso la gran parte delle condizioni economiche e geopolitiche che avevano permesso al ceto medio di arricchirsi, di risparmiare e di garantirsi un futuro migliore, ciò che una volta chiamavamo “borghesia” si è ritrovata impoverita economicamente, sfilacciata socialmente, marginalizzata politicamente. Già provata sul fronte economico dalla crisi del 2008 (ma forse quest’ultima ha in Italia solo accelerato un processo già in atto), la “media borghesia” ha iniziato, negli ultimi anni, semplicemente a scomparire nel nulla.

Le cause di una simile condizione sono molteplici: dalle politiche economiche che dagli anni ’80 hanno optato per una deregulation (spesso indiscriminata) di alcuni settori, alle privatizzazioni (spesso altrettanto scriteriate) degli anni ‘90, passando per i Trattati europei degli ultimi decenni, che da un lato hanno causato in alcuni Paesi esternalità negative (probabilmente impreviste) e dall’altro difficilmente riescono trovare una sintesi tra sistemi valoriali ed economici così diversi come quelli degli Stati Membri (penso ad esempio alla concezione completamente diversa della moneta e della politica monetaria in Italia e in Germania), fino ad arrivare, allargando il campo, al nuovo assetto globalizzato, così interconnesso da generare talvolta confusione e smarrimento, con il quale gran parte del ceto medio non è riuscita ad entrare in sintonia, trovandosi ai margini di una società che ad essa non garantisce più prosperità e possibilità di arricchimento. Tutto ciò a vantaggio quasi esclusivo dell’immenso capitale finanziario transnazionale, beneficiario delle tendenze economiche degli ultimi decenni. Si ripropone,  molto similmente alla Francia descritta da Sieyès nel ‘700, una situazione in cui una parte ampiamente minoritaria della società gestisce la maggior parte del capitale mondiale, di fronte ad una classe media sempre più povera. La sperequazione che l’abate Sieyès vedeva nella Francia prerivoluzionaria non fa altro che riproporsi oggi, ipermagnificata, nel mondo globalizzato.

La classe sociale che nei precedenti due secoli  aveva svolto la funzione di motore delle società occidentali da qualche decennio sembra dunque aver rallentato sempre più la sua corsa, fino quasi a fermarsi: la borghesia che dal “nulla” che era durante l’Antico Regime voleva essere “tutto” (parafrasando ancora una volta il grande Sieyès), la classe per sua stessa essenza simbioticamente legata ad un assetto economico-sociale di tipo mercantilistico prima e capitalistico poi, che sembrava l’unica in grado di arricchirsi da un modello del genere, sembra oggi essere la nuova vittima sacrificale di un capitalismo predatorio in parte slegato dalla libera concorrenza (come nel caso della tech economy dove, a causa di immani assetti monopolistici, le condizioni di accesso al mercato risultano sempre più difficili), in parte così legato alla finanza da considerarne sempre meno l’economia reale (basti pensare all’aumento generale dei valori azionari durante tutto il 2020).

Oltre che motore economico delle società occidentali, la media borghesia ha sempre svolto una funzione ulteriore quanto imprescindibile: quella di collante sociale tra i molto ricchi ed i molto poveri, tra gli intellettuali e i poco istruiti, essendosi sempre trovata economicamente, socialmente e culturalmente nel mezzo tra questi due estremi, oltreché fisiologicamente portata, nella sua dinamica attività di arricchimento e di miglioramento individuale, al dialogo con entrambi i fronti.

Trova allora anche in ciò una spiegazione la sempre maggiore instabilità di cui sono preda le democrazie occidentali, frammentate internamente tra opposte tifoserie che hanno poco o nulla a che vedere con la divisione della società in parti(ti) del secolo scorso; le divisioni odierne, sebbene possano sembrare ideologicamente meno accentuate rispetto a quelle novecentesche, sono il portato di un disagio sociale e politico più profondo, che ha visto una piccola parte della classe media arricchirsi grazie ai fenomeni di globalizzazione e di interconnessione i quali hanno di converso emarginato la stragrande maggioranza dei borghesi, strappandogli la possibilità di guardare proficuamente al futuro.

Non sorprendono allora le tensioni sociali, il sentimento antipolitico che logora le comunità: se prima questa dialettica sembrava poter essere esprimibile in termini secchi, tra chi si riconosceva nei valori (economici, sociali, politici) delle liberaldemocrazie occidentali e chi invece prospettava una nuova visione del mondo, per la cui realizzazione si era pronti finanche alla rivoluzione, ora invece la frattura sembra esprimibile nella diversa dialettica apertura-chiusura; da un lato le minoritarie e sempre più abbienti élites che dei processi di globalizzazione hanno fatto la propria strategia commerciale, dall’altro il ceto medio, impoverito, escluso, non dotato degli strumenti per adeguarsi ad una realtà del genere e dunque abbandonato a se stesso. Da qui le derive populiste che, pur se a volte animate dal buon proposito di rappresentare i ceti estromessi dall’attuale circuito economico, offrono risposte semplicistiche a problematiche immense, con ciò gettando benzina sul fuoco di una situazione sociale già traballante.

I recenti fatti di cronaca, intercorsi negli Usa dall’Election Day di novembre, sono in tal senso emblematici. Se è vero che mai nella storia americana c’è stata confusione e sovrapposizione di metodi come nella scorsa tornata elettorale, è altrettanto vero che mai un presidente, perdente al voto, ha agito con modalità così spregiudicate per non cedere alla sconfitta, ed  il grottesco sacco di Capitol Hill non poteva che esserne la necessitata conseguenza: una società depressa come quella odierna, sfiduciata e disillusa, è naturalmente prona alle pulsioni peggiori e fisiologicamente incline ad azioni estreme.

Eppure la riflessione politica occidentale è da sempre focalizzata sull’impedire il disgregamento delle comunità per garantirne la durata e la prosperità. Tra il VI e il IV secolo a.C., Atene, culla della civiltà, sperimenta più volte la nascita e la morte dei propri regimi politici, in un alterno quanto precipitoso susseguirsi di tirannide, oligarchia e democrazia; sotto gli occhi degli osservatori dell’epoca si consuma la stasis, la decadenza di ogni singolo regime che annuncia l’approssimarsi del collasso sociale, della rivoluzione e di un nuovo doloroso inizio.

Ci si domandava: come spezzare questo assurdo susseguirsi di modelli sociali, tutti ugualmente inadeguati, come garantire la durata di una comunità politica nel tempo? Tra le tante riflessioni sul tema, tra cui quelle di Erodoto e di Platone, è però il genio di Aristotele che giunge a nuovi approdi, evidenziando una inscindibile correlazione tra forma del governo e forma sociale: ognuna delle classiche forme di governo è parziale perché dà voce solo ad una parte dei cittadini, pertanto la politéia, la forma di governo da lui immaginata,  deve essere mikté, “commistione di oligarchia e di democrazia” (Politica, IV, 8, 1293 b), una “forma in mezzo tra queste” (Pol., II, 6, 1265 b). Essa deve dar voce ai potenti come agli indigenti e dunque essere proiezione sul piano istituzionale della complessità sociale, garantendo stabilità tra le varie componenti della polis. Questa idea di Costituzione mista, riapparsa carsicamente nei secoli, sedurrà persino i padri costituenti del XVIII secolo (americani prima, francesi poi), che immagineranno un potere diviso, costantemente sorvegliato da pesi e contrappesi.

Tuttavia, per realizzare quell’omogeneità politica con cui assicurare stabilità nel tempo, il piano giuridico, da solo, non è sufficiente. Ancora Aristotele affianca all’idea di miktè politéia, che inerisce al piano giuridico, quella di mese politéia, attinente invece al piano sociale. Il governo della politéia, infatti, non deve essere solo misto giuridicamente, bensì anche mediano socialmente, ecco dunque riemergere il fondamentale ruolo di collante sociale della classe media: “Siccome si è d’accordo che la misura e la medietà è l’ottimo … il possesso moderato è il migliore … perché rende facilissimo obbedire alla ragione”; senza un diffuso ceto medio avremo una società di pochissimi ricchi troppo potenti e di moltissimi poveri troppo arrabbiati; “uno stato di schiavi e di despoti, ma non di liberi, di gente che invidia e che disprezza … lo stato vuole essere costituito … di elementi uguali e simili, il che succede soprattutto con le persone del ceto medio” (Pol., IV, 11, 1295 b).

La (ri)valorizzazione del ceto medio, economicamente e socialmente, è dunque la risposta: se per assicurare la stabilità temporale ad una comunità è necessario garantire omogeneità politica, quest’ultima è da intendersi primariamente come omogeneità sociale. La classe media, più produttiva e meno conflittuale e problematica sia dei molto poveri che dei molto ricchi, è il ceto che va salvato dall’emarginazione, dall’impoverimento, dalla radicalizzazione. Pietra angolare nella costruzione di una società solida e duratura, solo tramite una borghesia florida e fiduciosa nel futuro le odierne democrazie potranno ritrovare prosperità, tanto sul versante economico quanto su quello sociale e ideale.

I nostri leader, ove mai davvero tenessero alla democrazia, dovrebbero riflettere su quanto preziosa per essa sia una classe media sana e che abbia la possibilità di divenire operosa. Mi permetto qui di confidare non solo nelle notorie competenze economiche del Presidente incaricato Mario Draghi, ma anche nei suoi studi classici, affinché non dimentichi la lezione di Aristotele ed agisca di conseguenza, prima che la profezia di Sieyès si rovesci tragicamente e il Terzo Stato divenga, irreversibilmente, nulla.

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