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Guida ragionata all’agenda green (e resiliente) di Draghi

Erasmo D’Angelis, segretario generale dell’Autorità di Bacino dell’Italia centrale, spiega come il presidente del Consiglio incaricato può declinare il Recovery Plan italiano sostenendo gli investimenti necessari per la tutela dell’ambiente e la resilienza del Paese. Tutti i dettagli (da leggere)

In questa tremenda fase di emergenza, nel giro di consultazioni di Mario Draghi, nella sala di Montecitorio sono risuonate più volte come una urgenza le paroline magiche “green” e “ambiente”. Hanno sostituito “condono” o “sanatoria”, costanti della nostra storia, salvo sprazzi di buon senso e buona politica. Le parole nuove, da sempre inutilmente presenti in ogni documento pubblico, relegate alle proposte degli ecologisti, alle piazze dei Fridays For Future di Greta Thunberg o all’eccellenza dei think tank nell’analisi dei cambiamenti climatici e delle politiche conseguenti (clima, energia, acqua, e-mobility, economia circolare, infrastrutture, edilizia green, agricoltura, cura e manutenzione del territorio, riduzione dei rischi naturali, smart cities…) oggi mostrano un quadro mutato velocemente.

Non è un caso se Xi Jinping nella sua interminabile relazione all’ultimo congresso del Partito Comunista Cinese abbia usato per 89 volte le parole “clima” e “ambiente”, surclassando termini come “socialismo” e “comunismo”. La Cina, tra i più grandi emettitori mondiali di carbonio in atmosfera, sta provando ad assumere la leadership globale tecnologica e industriale della svolta green. La stessa direzione ha preso la Commissione europea guidata da Ursula van del Leyden dopo la dichiarazione di “Emergenza climatica”, con il lancio del Green Deal Europa e del Next Generation Ue che il Commissario agli affari economici Paolo Gentiloni quantifica come in grado di muovere 3000 miliardi di euro per produzioni meno inquinanti, la gestione sostenibile delle acque, la difesa delle aree urbane, la riduzione del rischio idrogeologico, la cura del ferro e dell’elettrico nei trasporti, l’agricoltura meno impattante. E tornano sulla scena mondiale anche gli Usa con il Presidente Joe Biden che nel suo primo giorno di mandato ha firmato il rientro nell’accordo di Parigi sul clima del 12 dicembre del 2015, impaludato dopo il ritiro plateale di Trump in nome della “sovranità energetica”, seguito a ruota da Russia, Australia, Arabia Saudita, Brasile, Sudafrica, India, Argentina, Canada, e da altri che boicottano sottobanco e nei corridoi sia i tempi che i dettagli dei meccanismi di controllo delle emissioni di anidride carbonica e della deforestazione, per non dire del trasferimento di 100 miliardi di dollari in tecnologie (dal 2021) per produrre energia pulita nelle aree più povere del pianeta. Gli Usa lanciano su scala planetaria la loro potenza di fuoco con investimenti dalle rinnovabili alla e-mobility, e tutto è destinato cambiare velocemente.

Un paese come l’Italia deve solo rimboccarsi le maniche e riempire di cantieri la parola green. Gli investimenti sono clamorosi e il Recovery Plan è il nostro più imponente piano di rilancio dal dopoguerra. Dal 16 agosto la “Recovery and resilience task force” è il nostro interlocutore su linee guida, regolamenti, obiettivi della transizione verde e digitale, il monitoraggio dell’attuazione nelle 6 macro-aree: rivoluzione verde e transizione ecologica (68,9 miliardi), digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura (46,1 miliardi), infrastrutture per una mobilità sostenibile (31,9 miliardi), istruzione e ricerca (28,4 miliardi), inclusione e sociale (27,6 miliardi), salute (19,7 miliardi). I complessivi 209 miliardi di euro, con il 37% per mettere l’Italia sulla via della transizione ecologica per rispondere alle due grandi crisi climatica e socio-economica, devono però fare i conti con i nostri talloni di Achille: avere progetti di qualità e saperli “mettere a terra”. È già vergognosa e indicativa di un tran tran da lasciarsi alle spalle la marea di fondi “incagliati” e non spesi nella pancia dei vari ministeri, qualcosa pari a circa 120 miliardi già appostati su opere e interventi da anni e alcuni anche da decenni, soprattutto al Sud, per mancanza di progetti e governance e determinazione politica. È il nostro “baco” che Draghi dovrà affrontare per fare l’impresa.

Ma il nuovo governo di alto profilo dovrà presentare tra poche settimane la riscrittura del piano, finora trattato come una sorta di maxi-legge di bilancio col bancomat dell’Ue, con dentro di tutto di più, con un mettere fondi di qua o di là ma scollegato da una visione a lungo termine e dal nuovo Piano Nazionale Integrato Energia-Clima che deve prevedere in linea con gli obiettivi europei il taglio delle emissioni al 55% entro il 2030 e la de-carbonizzazione nel 2050. Gli obiettivi di resilienza vanno chiariti: tanto per capirsi, non potranno passare l’esame delle linee di finanziamento Ue gli investimenti su fonti fossili o su opere come il mitologico ponte sullo Stretto o sulla trovata del tunnel sotto lo Stretto tra i più sismici della Terra. È questa l’emergenza dello Stretto o non è piuttosto quella di farsi finanziare la soluzione del problema numero uno dell’area tra la Calabria e la Sicilia, e cioè la messa in sicurezza antisimica di migliaia di edifici oggi a rischio crollo in terre di terremoti (tra i 4 e i 5 milioni di edifici su scala nazionale sui 12 milioni complessivi sono a rischio!) con un clamoroso rilancio dell’industria dell’edilizia?

Molte opere immaginate sono palesemente fuori piano e quindi fuori budget anche per l’impossibilità di rispettare la tempistica europea che è molto rigorosa e chiara e parecchio impegnativa: entro il 31.6.2023 bisogna aver superato la fase del progetto e dell’assegnazione di gara, e entro il 31.6.2026 quella del collaudo, pena la restituzione dei fondi impegnati. Draghi dovrà trasformare le grandi e generiche linee individuate nel piano italiano in schede e tabelle molto precise e molto dettagliate, come dalla fine dell’estate scorsa chiede la Commissione Ue. E far rientrare nel piano, ad esempio, gli 8.4 miliardi di interventi già schedati per invasi e acquedotti al Ministero delle Infrastrutture o il piano di infrastrutturazione digitale per alert e per la nostra sicurezza proposto dalla Protezione Civile, rimasti inspiegabilmente fuori.

Il Recovery richiede poi il supporto di riforme e provvedimenti urgentissimi per la riduzione dei “tempi morti” e un fortissimo aumento della capacità tecnica nella pubblica amministrazione. Servono norme-turbo per dichiarare i cantieri europei no-stop dopo l’aggiudicazione della gara per non farli bloccare dai soliti ricorsi dei perdenti (la giustizia può procedere su strade parallele, così come per le opere anti-dissesto di italiasicura prevede il decreto Sblocca Italia del 2014). Servono dichiarazioni di “pubblica utilità” delle opere per sostituire trafile di visti, pareri, autorizzazioni, nulla osta. I pareri di Ministeri o Soprintendenze, se necessari, devono essere rilasciati in 30 giorni. Servono anche commissari, in alcuni casi con poteri modello Ponte di Genova. Ma da adesso serve innanzitutto la garanzia di avere un flusso di progettazioni ininterrotto, il primo step del piano. Come? Con assunzioni di personale tecnico nella PA anche a tempo, con il ritorno di personale in pensione come per l’emergenza pandemia negli ospedali per rafforzare le aree tecniche di Regioni e quelle ormai quasi scomparse di tantissimi comuni; ripristinando il sistema di incentivi-contributi integrativi ai progettisti pubblici; creando un “Fondo di progettazione nazionale” anche per alimentare il mercato esterno alla PA; avviando corsi di formazione alle procedure di progettazione, direzione lavori, gestione della sicurezza nei cantieri; eliminando i tempi morti del Cipe o lo stesso Cipe presieduto dal Presidente del Consiglio e partecipato dai ministri economici la cui funzione potrebbe semplicemente ritornare in capo al Consiglio dei Ministri, con le istruttorie tecniche previste nelle sedute del pre-Consiglio; riducendo gli iniziali controlli ex ante di Corte dei Conti e Anac. E serve soprattutto mobilitare le risorse tecniche delle nostre grandi aziende e multiutility pubbliche (da Leonardo a Enel, Eni, Terna, Fincantieri, A2a, Acea, Iren, Hera…), chiamando in prima linea task force già formate per queste missioni delle società in house (Invitalia, Sogesid…), dell’Agenzia per la Coesione territoriale; della Protezione Civile, dei Consorzi di Bonifica, delle 5 Autorità di distretto idrografico italiane.

L’orizzonte oggi, con Mario Draghi, cambia, e forse non saremo più quel paese da recovery.


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