L’Africa e il Golfo saranno due luoghi in cui l’economia e l’innovazione ripartiranno per prime quando la pandemia sarà finita. Con un occhio all’Expo di Dubai 2021, Maurizio Guandalini ha raccolto in “Africa&Gulf” (Mondadori Università) dei preziosi saggi sulla regione, scritti da specialisti di imprese piccole, medie e grandi, studi professionali, giramondo tra economie. Formiche.net pubblica in anteprima l’introduzione al libro
Collegare le menti. Creare il futuro. Dopo il Covid-19
Cooperazione. Espressione di una volontà. Onnicomprensiva. Spesso rinnegata. Al di là del mar Mediterraneo. Sessantamila anni fa, sulle tracce di lontane migrazioni preistoriche, i nostri antenati, partendo dall’Africa, si sono diffusi su tutto il pianeta. Il Continente Nero. Aiutarli a casa loro. Nihil sub sole novi. Ha prevalso lo schema colonialista. Narrato con realismo dal film, di Alberto Sordi, Finché c’è guerra c’è speranza.
Mentre, silenziosa, la Cina, sta presidiando il territorio.
Serve un piano Marshall, sempre quello gira nelle menti più esposte del Vecchio Continente. Non comparabile al metodo d’approccio verso l’area del Golfo. Quali saranno le strategie d’investimento? Come cambia l’orientamento delle imprese e delle istituzioni finanziarie? E il ruolo delle banche e delle organizzazioni internazionali?
Le illusioni. I cambiamenti. Il disincanto. La Primavera araba, quando il destino pareva ineluttabile, verso la direzione di rivoluzioni rapide, mirate a cambiare sistemi politici, economici, sociali e culturali. Non è andata così. Risultati scarsi ed evaporata rapidità.
La crisi di quell’area paga dazio per mancanze, ritardi atavici e sommovimenti epocali. Nel frattempo i Paesi del Golfo hanno vissuto la loro transizione. Non più solo petrolio. Ma la diversificazione finanziaria è stato il cambio di passo. Un’apertura a estuario iniziata da tempo, dal Bahrain agli Emirati Arabi Uniti, con la presenza di tanta Europa e Italia. Chiamati ad investire. A collaborare.
Tra geoeconomia e geopolitica, riusciremo a comporre una road map, global&glocal, all’altezza, come la Storia ci chiede?
Fin qui lo scenario Africa&Gulf, prima del Covid-19.
Da ora tracciamo una linea che divide prima e dopo. Per un The Day After chiamato a ricomporre alcuni pilastri culturali, spesso in contrasto tra loro, che sorreggono e connettono le nazioni: sanità, economia, democrazia e ambiente.
Covid-19 vs. Modernità vs. Globalizzazione?
Non c’è, nel passato, un cloud comparativo, sociale ed economico, così progredito. Simile all’oggi. Impossibile prendere da esempio la pandemia spagnola durante la prima guerra mondiale. Tanto meno serve collegarsi a eventi di terrorismo internazionale, come la distruzione delle Torri Gemelle. E neppure alla crisi finanziaria globale del 2008.
L’affermazione espressa nell’hashtag emozionale, riecheggiato per mesi, Niente sarà più come prima, rilasciava, sottotraccia, la paura di perdere quello che c’era prima. Uno status non solo occidentale. Frutto dell’accelerazione del progresso sociale ed economico. Dentro il quale la stragrande maggioranza dei popoli convive. Con quei benefici di cui hanno giovato i Paesi in via di sviluppo favorendo, attraverso il decisivo processo civilizzatore della globalizzazione, l’uscita dalla povertà, di milioni di individui.
Tutto questo, in un istante, si spegne. Staccata la spina. Per mesi. Scenario inedito. È opinione diffusa che quel fermo è servito a ripensare agli errori, ai limiti dell’economia, piegata alle leggi della globalizzazione. Richieste di Regole. E Altro. Si ricorda lo scomparso professor Giovanni Sartori che, in un articolo sul «Corriere della Sera» metteva in guardia dal Mondo Aperto: in un’economia globalizzata il lavoro va ai poveri e i Paesi ricchi vanno in disoccupazione. Di seguito Jeremy Rifkin, che in un’intervista a Eugenio Occorsio su «la Repubblica», ha sentenziato che la globalizzazione è morta e sepolta, si riprenda, quindi, confidenza con il termine glocal.
In lode alle teleconferenze perché si risparmia in viaggi di lavoro, meno stress e più tempo per la famiglia. A fine ciclo l’ex ministro Giulio Tremonti che, in un’intervista ad Andrea Indini, su «il Giornale», pronostica che usciti dal lockdown troveremo le macerie della globalizzazione. Una Chernobyl finanziaria che porterà diritti alla fine del mercatismo. Rischiando un disordine globale e il passaggio dalla pace mercantile a segmentazioni crescenti del mercato, ancora più dazi, di nuovo svalutazioni. Il neoliberismo, cioè l’affidare al singolo la propria sorte, è drammaticamente imploso.
Lo storico Francis Fukuyama, su «la Stampa», ha scritto che le gravi crisi hanno conseguenze importanti, di solito impreviste. La Grande Depressione portò l’isolazionismo, il nazionalismo, il fascismo e la seconda guerra mondiale, ma anche il New Deal, la nascita degli Stati Uniti come superpotenza globale e infine la decolonizzazione. Gli attacchi dell’11 settembre hanno prodotto due interventi americani falliti, l’ascesa dell’Iran e il nuovo radicalismo islamico. La crisi finanziaria del 2008 ha generato il populismo antisistema che ha sostituito leader di tutto il mondo.
Può darsi che il Covid-19 porterà all’accelerazione dell’autoisolamento degli Usa, all’espansionismo cinese e a una Unione Europea avviata alla disgregazione. Comunque sia, la globalizzazione, interpretata-azzardata-frenata-temperata, è acquisita. Alla faccia del ‘nuovo ordine virale’, di chi si è inserito negli anfratti della pandemia per creare dualismo tra modernità e globalizzazione. La globalizzazione vive, vince e c’è, pure di fronte all’accentuata politica dei dazi, i regolatori patriottici del commercio. E anche rispetto all’approccio sovranista domestico post virus, di pochi Stati.
L’impronta del commercio internazionale, delle rotte millenarie, dei traffici delle merci, le relazioni imprenditoriali tra Paesi diversi e lontani, la globalizzazione, appunto, è il baricentro di ogni percorso di remise en forme. Di rilancio. Di Rinascimento. L’elemento comune di fronte alle cadute. Dalle guerre mondiali ai virus. È la ricostruzione. Che avviene attraverso l’economia. Dopo l’asiatica, negli anni Cinquanta- Sessanta, partì, in Italia, il boom economico.
Il distruttivo evento pandemico cambierà, s’ipotizza, lo stile e la qualità di vita. Sarà potenziato il welfare. E la sanità trovando le perfezioni igienico-sanitarie necessarie che faranno da barriera all’insorgere di nuove malattie potenziando la ricerca sui vaccini, lenta e ferma al secolo precedente. Se avessimo reso fruttuosi i saperi e le esperienze apprese durante la Sars non saremmo a questo punto. Si è prediletto il passo del bradipo per un mero ragionamento economico. L’influenza spagnola del 1918 – lo spiega Laura Spinney nel libro 1918, l’influenza spagnola. La pandemia che cambiò il mondo – ha stimolato la crescita dell’assistenza sanitaria nazionale e della medicina alternativa, l’amore per le attività all’aria aperta e la passione per lo sport. Dopo la spagnola è arrivato il charleston, con la peste manzoniana si è passati dai mobili scuri alle dorature rococò. Le epidemie cambiano i gusti, ha detto a Francesca Bonazzoli, del «Corriere della Sera», il critico d’arte Philippe Daverio.
Trascendi e trasali. Non si ricomincia da capo
Chiariamoci. L’uscita di questo libro, post Covid-19, è, volutamente, un manifesto a tirarsi su le maniche e girare in grandi aree di sviluppo, con quel ronzio che circola nelle menti collegate a creare futuro. Senza ricominciare da capo, però. Le analisi economiche qui descritte sono le fondamenta, stravolte di poco rispetto all’andirivieni del virus pandemico. Le relazioni commerciali mirate alla crescita, dopo l’accadimento Covid-19, sono rimaste inalterate nel rapporto con le potenzialità di sviluppo economico tra Paesi.
Non ci addentreremo nel merito di come la straordinarietà negativa del Covid-19 ha mandato in cortocircuito il connubio vitale domanda-offerta dell’economia mondiale. Ci interessa, qui, tracciare i risvolti sociali all’interno delle comunità di cittadini, le relazioni tra persone, il sentimento, lo spirito generato, che ha inciso più di ogni altro elemento a determinare gli scenari economici odierni. In continua evoluzione.
È stato il virus più mediatizzato della storia. Ha specificato il professor Gilberto Corbellini ad Antonello Piroso su «la Verità». Una gestione tra il terroristico e il paternalistico. Ci siamo fatti dettare l’agenda dal virus adottando misure di 100 anni fa. In casa. Chiuse le economie del mondo. Rendendo violenta la scelta tra Economia e Salute. Violenta perché frutto di sottovalutazioni, d’impreparazione, trascuratezze delle classi dirigenti, politiche e sanitarie, dei singoli Paesi, che, obtorto collo, ci hanno condotto di fronte alla disperata trilogia a fasi: Pandemia, Carestia, Nevrastenia.
Il libro Peste e Società a Venezia nel 1576 di Paolo Preto. La paura di perdere introiti hanno da sempre favorito le epidemie, attraverso posizione negazioniste. L’ha ricordato l’infettivologo Massimo Galli in un’intervista a Selvaggia Lucarelli per www.tpi.it. Saremmo, però, fuori dal mondo contemporaneo, occidentale, avanzato se adottassimo quel metro, camouflage, da dietrologia cospirativa, in un’occasione, quella odierna, dove i livelli di progresso tecnologico e culturale hanno raggiunto traguardi straordinari che mal si associa col negare l’evidenza. È incontrovertibile – come ha sostenuto a «Le Monde», l’ex ministro francese all’ambiente, Nicholas Hulot – che questa crisi sanitaria è l’avatar di una crisi molto più profonda, che mette in risalto i nostri fallimenti, i nostri eccessi, le nostre vulnerabilità.
Il Papa ha raccolto il senso comune: «Pensavamo di rimanere sani in un mondo malato». E così Francesco prosegue: «La pandemia ci ha messo tutti in crisi. Ma ricordatevi: da una crisi non si può uscire uguali. O usciamo migliori, o usciamo peggiori. Questa è la nostra opzione. Dopo la crisi, continueremo con questo sistema economico di ingiustizia sociale e di disprezzo per la cura dell’ambiente, del creato, della casa comune?». Nel primo stadio, l’evidenza ambientale. Lo stato di salute del Pianeta. Trascurato, comunque, malgrado, da contemporaneo, fosse in coma. Quasi ignorato nel tran tran quotidiano. Vuol dire, come abbiamo letto di frequente nell’analisi di diverse associazioni ambientaliste, che abbiamo oltrepassato il limite e la natura ci manda segnali? Un intervallo dell’Antropocene, l’età geologica di dominio dell’uomo sulla Natura?
Tra pietà e pietanza. Del Migliore
Saremmo per rispondere affermativamente alle domande se non fosse che nella centrifuga della retorica di questo genere di discussione ci si arena nella fumosità di conclusioni che sostanzialmente generano un nulla di fatto. Che smonta le buone intenzioni. Alla stregua degli hashtag, durante la pandemia, che «dopo» ne usciremo migliori, che sarà un mondo migliore, che sarà un’economia migliore. Il pensiero dell’antropologo Marino Niola ad Antonello Caporale sul «Fatto Quotidiano» è che certamente saremo più poveri, ma perché più infelici? Domani saremo costretti a inventarci un nuovo modello di stare al mondo.
Ritorniamo al punto. Se non moriremo di virus, moriremo di fame. L’allarme di Oxfam nel maggio 2020 girava intorno alla contrazione dei consumi e dei redditi causata dal virus che potrebbe ridurre in povertà tra il 6 e l’8% della popolazione mondiale. Lo choc potrebbe annullare i progressi fatti negli ultimi dieci anni nella lotta all’indigenza. Con una contrazione del reddito da lavoro fino a 3400 miliardi.
Il crollo del petrolio, fenomeno non inedito, a -74%, sotto i 6 dollari al barile ha destabilizzato le petro-monarchie del Golfo, i compromessi del principe saudita con la Russia, la politica degli Stati Uniti che ha partecipato al risiko dei prezzi (i produttori di shale oil sotto i 40 dollari al barile rischiano la bancarotta), ha sottratto l’unica ricchezza, freno regolatore delle migrazioni, dei tanti Stati affacciati sul Mediterraneo.
Quindi, il lockdown uccide più del virus? Il professor Philip Thomas dell’Università di Bristol, su «The Telegraph», profetizza che la povertà e la depressione faranno più morti del Covid-19. Nel Regno Unito con un blocco intermittente nell’arco di cinque anni potrebbero morire 150.000 persone. Ma ci sarebbero 675.000 vittime per i danni collaterali. Più di tutti i caduti britannici nella seconda guerra mondiale e più dei decessi che ci sarebbero stati tenendo tutto aperto.
Come risposta al patchwork disordinato di suggestioni del bene (saremo migliori) contro il male (la vita fino a prima del virus), facciamo nostro un ragionamento del filosofo francese Alain Finkielkraut, nell’intervista di Anais Ginori a «la Repubblica». Non vogliono vivere nel mondo di cretini sorridenti che alcuni tentano di propinarci. Che così continua: «Molti pensano che questa crisi debba rimettere in discussione la nostra modernità perché l’uomo ha selvaggiamente sfruttato il Pianeta, distrutto habitat naturali, deforestato intere regioni. Il coronavirus sarebbe la vendetta della Natura. Nemesis, la potenza divina che punisce l’hybris. Non condivido quest’analisi. Preferisco restare modesto. Tanti cedono all’immodestia della colpevolezza».
Tra fame e appetiti. Del mercato contadino
Siamo nel ruvido dettaglio di scuola che se le imprese non ripartono al più presto, l’economia uccide più del coronavirus. Da qui in poi si attendono lampi di luce su terre incolte. Non il condimento di ricette di ogni sorta, trazione di conclusioni epocali, rimandate alle magnifiche sorti e progressive. Abbiamo visto Governi conservatori mettere in atto misure che in altri tempi avremmo chiamato socialiste. L’esaltazione di una moderna autarchia, forme primitive di mercato domestico, derivazione, in linea diretta, della chiusura dei confini, dal limite della circolazione delle persone a quello delle merci: compro spagnolo in Spagna, compro francese in Francia, compro italiano in Italia. Nell’emergenza ci sta. Peccato, per questi teorici a oltranza, che la sopravvivenza di molti sistemi economici è frutto di un ingente flusso di prodotti indirizzati all’export, verso Paesi europei ed extraeuropei. È la fortuna del made in Italy e il valore aggiunto di tante piccole e medie imprese. Di investimenti diretti. Di joint venture. Non si può risolvere solo con lo smart working. O con i mercati telematici.
Serve relazione, complicità, fiducia. Incontrare fornitori e acquirenti. Guardarsi negli occhi. Discutere. Redigere accordi. Condurre imprese. Quello che nel codice di comportamento nelle relazioni contrattuali cinesi è chiamato guanxi, creazione di legami, dove il primo investimento è nella relazione di amicizia. Voltarsi indietro per andare avanti, quando il pane era polenta, dicevano i nonni della Bassa Padana. Nel glocal, il mercato del contadino è un format valido per il global scalfito dal distanziamento e dall’autogenerata diffidenza. La descrizione che ne fa lo scrittore Ermanno Rea, nel libro Il Po si racconta: Uomini, donne, paesi, città di una Padania sconosciuta è quella che rende più l’idea di un modello da recuperare, nel più breve tempo possibile. Una piazza gremita – Rea osserva il mercato contadino del giovedì a Mantova – di ruvide facce di allevatori, macellatori, mediatori che parlottano, si scambiano bigliettini, si danno pacche sulle spalle, che si chiamano da un capannello all’altro, che annuiscono, dissentono, sorridono, sbuffano, per suggellare, alla fine, con una semplice stretta di mano, una transazione.
Tra urge e nessi. Delle libertà
Globalizzazione è la possibilità di produrre e vendere qualsiasi cosa in ogni momento e in ogni parte del pianeta. Quindi le relazioni tra Paesi rimarranno per far funzionare le economie. Si tratta di ritornare allo status quo ante per preservare quel tanto ottenuto. E le classi dirigenti, presenti e future, si legittimeranno dalla capacità di risollevare le economie, aggiustare il motore e farlo rombare.
Riesce difficile immaginare, ora, i correttivi, semmai possibili, da apportare alla globalizzazione così fatta. Il trambusto economico mondiale del 2008, il più pesante dalla crisi di Wall Street del 1929, aveva smosso il capo della superpotenza mondiale, occidentale, il presidente degli Stati Uniti Obama che, di fronte al caos di quei giorni, si pronunciò, senza riserve, per cambiare, da lì a poco, la globalizzazione finanziaria. Innestandola di ferree regole di mercato che avrebbero tutelato i cittadini. Abbiamo constatato cambiamenti a saldo zero. E parole disperse nel vento.
Che fare, per darci quel contegno necessario e non cadere nel gattopardesco tutto cambia perché nulla cambi?
Nell’era del business postcontagio ci faremo dare il certificato di idoneità sanitaria dalla Cina? I rapporti import-export tra Paesi saranno condizionati dal cambiamento degli stili di vita e dalle norme igieniche sanitarie? E chi deve sovraintendere a questo? Gli organismi internazionali, si risponderà. Ma si sa il loro funzionamento. Come si compongono. Qual è la loro expertise. Un ipotetico protocollo sanitario nel business assurgerebbe al pressappochismo della politica delle sanzioni, o a quello della violazione dei diritti umani e della detenzione di armi nucleari, tutti quanti ampiamente aggirati dagli stessi che li brandiscono.
È vero che se fosse stata in uso una globalizzazione sanitaria, durante la pandemia, non ci saremmo trovati oggi a piangere tanti morti e curarci le ferite drammatiche in economia e in politica. Le chiusure a riccio degli Stati sovrastati dall’emergenza virus, sono state anche una occasione ghiotta di molte classi dirigenti, soprattutto dei Paesi in via di sviluppo, a usare il comando, nella prospettiva di consolidarlo ulteriormente, per chiudere lo spazio già ridotto delle libertà fondamentali dei cittadini. Tentazioni nascoste, ma temperate, che non hanno risparmiato, a macchia di leopardo, Stati cosiddetti evoluti, occidentali. Dimenticando, in più occasioni, quel principio sacrosanto, in una sintesi efficace enunciato dal costituzionalista Sabino Cassese – durante la trasmissione televisiva di Rai3, Quante Storie, il 2 giugno 2020, festa della Repubblica – «le democrazie sono organismi che dovrebbero riuscire a superare sia gli anni delle vacche grasse, sia quelle delle vacche magre».
Sono le tentazioni. Per alcuni volute. Per altri obbligate. Adottate durante le chiusure. E poggiate sulla paura montante, duratura, mai doma chissà fino a quando, di molti cittadini, che ben si attagliano al paradigma dello scrittore e filosofo Javier Marias, Senza la libertà non muore nessuno, della libertà si può fare a meno. Infatti è la prima cosa alla quale i cittadini impauriti sono disposti a rinunciare. Al punto che spesso reclamano a gran voce di perderla, vogliono che sia loro tolta, non vogliono rivederla nemmeno dipinta, mai più, e acclamano chi viene a strappargliela e poi votano per lui.
Il nazionalismo, l’isolazionismo, la xenofobia e gli attacchi all’ordine mondiale liberale sono in aumento da anni e questa tendenza è stata accelerata dalla pandemia. I governi in Ungheria e nelle Filippine hanno usato la crisi per darsi poteri di emergenza, allontanandosi ancora di più dalla democrazia. Molti altri Paesi, tra cui Cina, El Salvador e Uganda, hanno adottato misure simili. È la constatazione corrente ben spiegata dallo storico Fukuyama. Che così continua. I Paesi poveri con città affollate e sistemi sanitari pubblici deboli saranno duramente colpiti.
Non solo il distanziamento sociale, ma anche la semplice igiene come il lavaggio delle mani sono difficili nei Paesi in cui non si ha accesso all’acqua pulita. E i governi hanno peggiorato le cose, sia di proposito, acuendo le tensioni delle comunità e minando la coesione sociale, sia per incompetenza. La pandemia ne aggraverà gli effetti, portando i sovraffollati Paesi in via di sviluppo al limite della sussistenza. E la crisi ha infranto le speranze di centinaia di milioni di persone nei Paesi poveri che hanno beneficiato di due decenni di crescita economica sostenuta.
Muoviti, tocca a te
Il fondamentalismo islamico è alimentato dal fallimento della modernizzazione e della democratizzazione. Chiaro? Non c’è un nuovo ordine internazionale senza dialogo (l’ultimo esempio è lo storico accordo tra Israele con gli Emirati Arabi per un piano di pace in Medioriente). Che trova lo spirito nella cooperazione economica. Ancora più in uno scenario, quello odierno, che diverge dal riarmo tra le due superpotenze, Usa-Urss, della guerra fredda. Se un virus, da animale a uomo, riesce a chiudere il mondo, rivoltarlo, ribaltarlo, volete che la prossima tensione internazionale sia lì ad accadere, anche per opera di qualche matto fuori linea, a capo di qualche Stato dittatoriale, facendo leva sulla minaccia di un distruttivo virus pandemico invece che sul lancio di un missile nucleare? In mezzo ci sta l’economia. Che sorregge e fortifica la qualità e lo stile di vita dei cittadini, migliora le finanze delle famiglie. Solo con capacità dello Stato, fiducia sociale e leadership si riuscirà a non mandare tutto a scatafascio. L’integrazione economica globale è il miglior antidoto contro qualsiasi guerra, è l’unica soluzione per dare vitalità a sistemi economici deboli e frammentati. Risollevare economie statiche, ristrutturare l’industria e aprirsi agli investitori stranieri.
In questo volume, Africa&Gulf, prevale lo spirito di relazione del mercato contadino, prima descritto. Le briglie che generano chiusure, diffidenza, preoccupazione, ostilità, odio, rifiuto dell’altro sono uno status che rende il virus invincibile. Determinato. Nel libro scrivono specialità e specialismi d’imprese piccole, medie e grandi, studi professionali, giramondo tra economie. Da esplorare. Sperimentare. Da toccare con mano. Ricollegarsi, a rifondare legami. Il made in Italy, creato e fatto in Italia, rimane, è e sarà il passaporto originale, purtroppo malamente usato in occasione della pandemia, per infondere fiducia, riavvicinare, costruire relazioni, rilasciare garanzie inossidabili. Expo Dubai 2021, dal 1° ottobre 2021 al 31 marzo 2022, è la prima solida occasione del rilancio mondiale del commercio dopo il Covid-19. Con questo spirito education prima del business e conoscere per investire rimarranno i capisaldi, non contendibili, di un mercato globale liberato dalla paura.