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Alleanze, missioni e l’esigenza di investire in Difesa. Cosa insegna l’Iraq

La notizia della candidatura italiana a guidare il nuovo impegno Nato in Iraq ha riacceso i riflettori sulle missioni internazionali. Che senso hanno? Perché puntare sui dispiegamenti all’estero? Proprio il caso dell’Iraq mette in evidenza il legame tra missioni, investimenti e incasso con gli alleati

Dopo moda, cibo e automobili, tra i brand italiani che funzionano di più all’estero c’è la difesa. L’impegno dei nostri militari nelle missioni internazionali è universalmente apprezzato, sia da alleati e partner, sia dai protagonisti del dibattito entro i confini nazionali, concentrato per lo più nell’annuale iter parlamentare per il cosiddetto “decreto missioni”. D’altra parte, la partecipazione alle missioni garantisce da tempo all’Italia una voce autorevole in tanti consessi internazionali, dai rapporti bilaterali alle organizzazioni multilaterali. L’impegno comune in molteplici teatri è tra i temi più ricorrenti dei contatti con l’alleato d’oltreoceano, mentre il ruolo italiano dall’Afghanistan all’Iraq, dal Mediterraneo ai cieli del nord Europa è tra le più rilevanti credenziali vantate a Bruxelles, sponda Nato.

Per l’Alleanza Atlantica, dopo il vertice del Galles nel 2014, ciò rientra nel termine “contribution”, la terza “c” che affianca il “cash” e la “capability”, cioè le risorse da investire nella Difesa (tra cui la fatidica soglia del 2% del Pil). È proprio il peso del “contribution” che ha permesso all’Italia di evitare le maggiori strigliate di Trump sul “cash” negli ultimi quattro anni, bilanciando di fatto le difficoltà sul fronte della spesa con gli impegni all’estero.

Eppure, è intuibile il legame tra “cash”, “capability” e “contribution”, cioè tra gli investimenti nel settore e la capacità di esprimere competenze credibili all’estero. Sulle competenze dei militari italiani non c’è ormai alcun dubbio. Era il 2017 quando l’autorevole Politico Europe titolava “Europe’s military maestros: Italy”. Da allora gli apprezzamenti si sono susseguiti numerosi, l’ultimo dei quali la settimana scorsa dal segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, che ha espresso “estrema gratitudine all’Italia” per il ruolo avuto nei vent’anni di impegno in Afghanistan.

Negli ultimi giorni i riflettori si sono accesi sull’Iraq, complici la notizia del potenziamento della missione Nato (da 400 a 5mila unità), e i nuovi attacchi contro la base della Coalizione internazionale anti-Isis a Erbil, nel Kurdistan. Lì è concentrata anche buona parte del contingente italiano. L’ultima delibera missioni approvata dal Parlamento (relativa al 2020) ha previsto un incremento nel dispiegamento massimo da 900 a 1.100 unità per la missione Prima Parthica, contributo alla Coalizione anti-Isis, con l’aggiunta di una batteria missilistica Samp-T in Kuwait proprio per proteggere gli assetti nazionali. Tale impegno resta legato al coordinamento con alleati e partner, in primis gli Stati Uniti, che lo scorso settembre hanno ufficializzato il ritiro parziale delle truppe presenti nel Paese, da 5.200 a 3 mila. Un ritiro non proprio in stile Trump, visto che era ampiamente previsto, già comunicato alla autorità irachene, e in linea con quanto concordato in ambito Nato.

Da almeno un anno l’Alleanza Atlantica discute del potenziamento della training mission in Iraq, a cui l’Italia dedica attualmente circa 40 unità. L’obiettivo principale della Nato è conservare i risultati raggiunti nella guerra all’Isis e continuare a sostenere il consolidamento delle Forze armate e di polizia irachene (e curde). In tal senso, la missione Nato si potenzierà ereditando parte delle competenze della Coalizione internazionale anti-Isis (di cui l’Alleanza è membro), con la finalità ulteriore di abbassare il profilo Usa nel Paese, divenuto complesso dopo l’uccisione a gennaio dello scorso anno del leader iraniano Qassem Soleimaini. A stretto giro dal raid sul leader iraniano, il Parlamento iracheno aveva approvato una risoluzione non vincolante (con un forte ascendente di Teheran) chiedendo al governo di far uscire i soldati americani dal territorio nazionale, sintomo di una certa difficoltà.

Poche settimane dopo l’uccisione di Soleimani, in Iraq tornava il ministro italiano Lorenzo Guerini (c’era stato a dicembre), pronto a ribadire l’impegno italiano nel Paese, accolto dall’apprezzamento delle autorità nazionali per il ruolo dei nostri militari nella lotta all’Isis. Già allora emergeva la sponda di Washington. Il primo contatto ufficiale tra i governi italiano e statunitense dopo l’uccisione di Soleimani fu tra Guerini e l’allora capo del Pentagono Mark Esper. Negli stessi giorni il presidente iracheno Barham Salih era giunto a Roma dopo un incontro a Davos con Donald Trump. Emergeva la ferma volontà italiana di proseguire l’impegno nel Paese, sempre in risposta alle richieste delle autorità locali. Un ruolo evidente a giugno, quando si è riunito il gruppo ristretto della Coalizione globale anti-Isis, co-presieduto dal ministro Luigi Di Maio e dal segretario di Stato Mike Pompeo.

Ecco dunque che si completa lo schema: impegni all’estero, credibilità, peso politico sui consessi internazionali e ritorni in termini di posizionamento. Tutto questo potrebbe ora vedere ulteriore conferma con l’assegnazione all’Italia del comando della potenziata missione Nato. Ma con quali obiettivi? Che interesse potrebbe avere l’Italia a comandare la missione in Iraq?

Le ragioni sono molteplici. La prima, come detto, la credibilità tra alleati e partner. Vengono poi gli interessi di sicurezza, da inserire in un complesso scenario mediorientale, dal Libano (dove l’Italia ha un ruolo centrale) fino al Mediterraneo. Agli interessi strategici si sommano inoltre quelli economici e commerciali. “Riguardo la nostra cooperazione nel settore industriale – spiegava Guerini nella visita dello scorso settembre – l’Italia conferma la propria volontà di costruire un rapporto bilaterale privilegiato in tale settore”. Secondo gli ultimi dati dell’Unione petrolifera italiana, nel 2020 l’Iraq ha rappresentato il secondo fornitore di petrolio greggio, con il 17,7% dell’import coperto dalle forniture irachene. Nel 2019 tale percentuale si è attestata al 20%, davanti alle importazioni da Azerbaijan, Russia e Libia.

Alla base ci sono gli interessi nazionali, che guidano la politica estera e la politica di difesa che ne è diretta emanazione, e che trova nelle missioni internazionali un pilastro fondamentale. In tale quadro di facile comprensione, c’è un elemento altrettanto rilevante che però spesso sfugge al grande dibattito: l’esigenza di assicurare ai militari gli strumenti idonei ad affrontare i contesti operativi. E se tali contesti cambiano, evolvono e si riempiono di sfide ibride e multiformi, allora aumenta l’esigenza di ammodernamento, con un impegno costante nell’innovazione in campo militare.

Anche perché non c’è solo l’Iraq. Attualmente i militari impegni all’estero sono circa 7.500. Il contesto di riferimento principale è il “Mediterraneo allargato”, espressione che racchiude l’obiettivo di ri-orientare gli impegni verso aree di più diretto interesse nazionale. Oltre al Medio Oriente, c’è il Sahel, su cui l’Italia si è impegnata a fare di più, in risposta alle richieste francesi, ma con l’interesse a stabilizzare un’area direttamente collegata alla turbolenza della sponda sud del Mediterraneo, Libia in testa. Ci sono poi i Balcani, la storica “polveriera d’Europa”, ancora alla ricerca di una stabilità sostenibile. Se il Paese vuole contare in questi scenari, deve investirvi peso politico e diplomatico, ma anche annesso impegno militare. Perché sia credibile (e permetta poi di passare all’incasso con gli alleati) deve avere dotazioni conformi alle esigenze operative. Da qui, nasce l’esigenza di investire nell’ammodernamento militare. Non un’opzione, ma un’esigenza.

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