Gli Stati si stanno muovendo in ordine sparso nei confronti dei giganti della Silicon Valley. Tra multe senza potere deterrente, proposte di smembramento, e sgambetti pubblici in stile cinese, è necessaria una normativa non protezionista né punitiva ma omogenea. A partire dall’Unione Europea
Legibus solutus, ovvero, letteralmente, sciolto dalle leggi. Una condizione, ben più ampia dei concetti di autonomia e indipendenza, propria degli antichi imperatori cui era riconosciuta la facoltà di essere, di fatto, esentati dal rispettare le norme vigenti e codificata prima dal filosofo romano Ulpiano e poi dal giurista francese Jean Bodin.
Nel corso della storia costituzionale europea, tale definizione è stata poi, attenuata e, in età medievale, ha assunto il significato che “ciò che piace al Principe ha valore di legge, ma solo perché questo agisce per il bene della comunità promuovendo giustizia ed equità”. Infine, una flebile, e in parte impropria, traccia di questa tradizione è rimasta poi persino nella Costituzione italiana (art.90) a proposito dell’irresponsabilità degli atti compiuti dal Presidente della Repubblica nell’esercizio delle proprie funzioni.
Il principio liberale più puro è quello che assegna al mercato stesso il compito di auto regolamentarsi trovando così il proprio equilibrio. Ma spesso questo non basta.
In questi ultimi anni, infatti, gli operatori tecnologici internazionali hanno spesso dato l’impressione di agire in un regime di estraneità dal corpus giuridico nel quale operano con buona pace dei tentativi di regolarli.
Come evidenziato anche già dal Presidente AgCOM Angelo Cardani nel corso della relazione alle Camere del 2019 “dai colossi di internet vi è un serio rischio di posizione dominante” rispetto a tutti gli altri operatori. In quegli stessi mesi a cavallo tra il 2019 e il 2020, poi, la Federal Trade Commission aveva deciso di comminare una multa di ben 5 miliardi di dollari (la più alta di sempre) a Facebook per lo scandalo Cambridge Analytica ma questa, assieme alle richieste di revisione alla politica sulla privacy, rischia di essere un fatto ben poco incisivo e che anzi – in assenza di una struttura legislativa articolata e cogente – aprirebbe alla più chiacchierata impresa tech del momento – così come alle sue simili – scenari favorevoli ancora più ampi di oggi.
Tra l’altro, ora come ora inchieste e multe simili, anche se di entità minore, sono diventate quasi la norma e sembrano apparentemente non scalfire più di tanto questi colossi. Proprio in questi giorni, ad esempio, sempre Facebook ha ricevuto l’ennesima multa di “soli” 7 mln da parte dell’antitrust italiano.
In ambito europeo, la Commissione lo scorso dicembre ha varato due pacchetti normativi che dovrebbero indicare la strada almeno per una parziale regolamentazione dei giganti del web: il Digital Markets Act e il Digital Services Act. Le due iniziative rappresentano un importante passo in avanti nella regolamentazione delle Big Tech prevedendo, il primo multe fino al 10% del fatturato in caso di gravi violazioni della concorrenza e una maggiore responsabilizzazione delle piattaforme il secondo (anche qui con multe fino al 6% del fatturato globale) per una gestione più etica di contenuti e dati utente.
L’amministrazione Trump ha avuto un atteggiamento bifronte nei confronti delle Big Tech: sostenute in politica estera, soprattutto nei confronti della Cina, osteggiante in quella interna, come emerge dai casi Twitter e Amazon. Una sfida che ha avuto il suo apice con la sospensione degli account social dell’ex Presidente.
Presso l’opinione pubblica americana, invece, è stata più volte ventilata l’ipotesi di avviare contro le Big Tech un procedimento di smembramento simile a quello della Standard Oil, ciò sarebbe dovuto all’eccessiva incidenza sulla politica (interna ed estera), l’economia e il lavoro che queste imprese sono in grado di esercitare. Lo stesso Congresso ha elaborato lo scorso autunno un corposo stato di accusa (di quasi 500 pagine) in cui è tracciata la strategia antitrust che passa per scorpori di rami d’azienda, multe, divieti e serrati controlli nei confronti di questi giganti.
Se poi qualcuno sperava che questo atteggiamento interno cambiasse con l’elezione di Joe Biden è, almeno, poco informato. Biden, infatti, già nel 2012 aveva mostrato una certa ritrosia nei confronti delle grandi imprese tecnologiche quando, nel corso di un pranzo informale, chiarì subito il concetto che per quanto lo riguardava (da Vice presidente) si considerava più attento ai lavoratori e al Pil prodotto dalla General Motors che non da Amazon, Google, Apple eccetera. Da Biden, quindi, non possiamo aspettarci un netto cambio di strategia rispetto a Trump, anzi.
Sul tavolo rimane poi ancora la questione della web tax. Alcuni paesi europei, tra cui Italia, Spagna, Turchia e Francia hanno deciso di procedere autonomamente in attesa che venga finalmente trovata una soluzione in ambito OCSE. Tali decisioni avevano attratto le ire dell’amministrazione Trump che aveva minacciato una spietata guerra dei dazi contro le esportazioni di questi paesi. Il caso ha però voluto che sia proprio uno Stato americano, il Maryland, uno dei primi a dare effettivo avvio alla web tax.
Se le Big Tech occidentali vanno incontro a rilevanti difficoltà, altrettanto si può dire di quelle cinesi. Un esempio su tutti. L’ormai famosa IPO di Ant Financial, il ramo finanziario del colosso del commercio elettronico Alibaba, non solo è stata stoppata all’ultimo momento dalle Autorità cinesi proprio quando stava per far rilevare la quotazione più alta di sempre, ma pare che il PCC abbia un piano più generale per rendere forzosamente competitivo il mercato digitale cinese, a dispetto di quanto accaduto fino ad oggi, proprio per ribadire la propria autorità. In questo senso, quindi, sono da leggere le recenti multe comminate ad Alibaba e Tencent per abuso di posizione dominante da parte dell’amministrazione statale per la regolamentazione del mercato cinese.
Al di là delle valutazioni dei singoli paesi, è chiaro che l’uniformità normativa e l’equità fiscale siano i fattori fondamentali in grado di determinare il benessere del mercato e dei loro componenti. Un mercato più equo nelle sue regole, inoltre, rappresenta la migliore condizione per uno sviluppo etico e sostenibile dello stesso e delle procedure che lo riguardano.
Un approccio costrittivo alla normativa, sia fiscale sia regolamentare, non rappresenta però la via maestra da percorrere per l’individuazione di uno status di equilibrio che non faccia alcun tipo di distinzione. Così come il modello di società chiusa non favorisce lo sviluppo di una corretta dialettica di mercato, allo stesso modo, le chiusure protezionistiche non farebbero altro che sfavorire il mercato e, quindi, gli stessi clienti ed utenti. Dobbiamo, anzi, riappropriarci dell’agone, a partire da quello dell’Unione Europea, per stabilire tutti assieme le norme di crescita e di sviluppo che possano correttamente mettere in competizione tutti gli operatori allo stesso modo e lì lasciare che i siano i più capaci a prevalere.