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La deriva anti industriale non è ambientalismo. Scrive Tabarelli

Se la creazione del ministero della Transizione, con il potenziamento di quello dell’Ambiente, è solo l’ultima di una lunga lista di decisioni che sanciscono l’affermarsi dell’ecologismo in Italia, è importante sottrarre il tema dell’ambientalismo a chi, sotto la pressione del populismo, vuole farne uno strumento per rivitalizzare passioni politiche da tempo sbiadite che sfociano nelle derive anti industriali

La creazione del ministero la Transizione, con il potenziamento di quello dell’Ambiente, è solo l’ultima di una lunga lista di decisioni che sanciscono l’affermarsi dell’ecologismo in Italia, in linea con quanto accade nel resto d’Europa. Non potrebbe essere altrimenti, visto che occorre salvare il pianeta dal disastro climatico e abbandonare le fonti di energia fossili, responsabili del 75% delle emissioni di CO2 antropiche. Purtroppo, dietro si cela un impoverimento culturale che coinvolge in prima linea la sinistra, impoverita di contenuti e sotto pressione del populismo, che spera nell’ambientalismo per rivitalizzare quelle passioni politiche da tempo sbiadite.

È un fenomeno non solo italiano, magra consolazione, che riguarda tutta la sinistra mondiale, dalla Commissione Ursula von del Leyen con il suo Patto Verde del 2019 che ha spianato la strada al Recovery Fund, che deve destinare almeno il 30% a investimenti per la transizione. Tutti sono obbligati ad annunciare politiche verdi, dall’Energiewende tedesco, un po’ vecchio perché avviato nel 2010, alla rivoluzione di Boris Johnson dello scorso ottobre, dagli aumenti della carbon tax di Emmanuel Macron del 2018, non gradita dai gilet gialli, ai recenti impegni di Joe Biden, che gli ha fatto vincere le elezioni di un soffio. Nella vittoria dell’ambientalismo d’annuncio chi perde, invece, è l’industria, messa dietro, se va bene, ma spesso accusata della catastrofe, per rianimare un po’ la defunta critica anticapitalistica.

Così diventa emblematico il recente caso italiano, con il nuovo primo ministro, non proprio un esperto di industria, che allunga il nome dell’ambiente con la Transizione ecologica, come se, da quando fu creato nel 1986, non a caso dai socialisti, abbia fatto qualcosa di diverso dal puntare all’abbandono dei fossili. Più di sostanza è il fatto che gli trasferisce le competenze sull’energia e le sottrae dal ministero dello Sviluppo economico, quello che da sempre si occupa di energia, perché l’energia è e rimane uno dei pilastri della politica industriale. L’energia è diventato il terreno dove portare avanti la rivoluzione verde e non più il volano dello sviluppo. È un altro passo che allontana la politica dall’industria, quella che per prima deve sopportare i maggiori costi della transizione e quella che dovrebbe invece prosperare per potere fare occupazione e innovazione. Chissà cosa sa l’esperto a capo del nuovo ministero dei prezzi della CO2, che hanno toccato in questi giorni massimi a 40 €, quasi il doppio della media del 2020, prezzi che dovranno pagare i 1000 impianti industriali sotto quello che è ritenuto essere il fiore all’occhiello della politica ambientale europea, l’Emission Trading System.

È dagli anni ’70 che le politiche energetiche sono condizionate da quelle ambientali, in Italia, in particolare, dalla legge 308 del 1982 che attuava il Piano energetico del 1981 e che già si intitolava sostegno alle fonti rinnovabili. Oggi, a 40 anni di distanza, le fonti rinnovabili nuove, il sole e l’eolico, quelle che più hanno goduto dei sussidi e quelle che ci porteranno all’eden verde, contano per il 16% della produzione elettrica e per il 6% della domanda di energia complessiva. L’opposizione a nuovi pannelli cresce, i soldi non sono un problema, anche grazie all’abbattimento dei costi, mentre chi li fa sono fondi finanziari che di tecnologia non sanno nulla, del resto non particolarmente necessaria per questi impianti. La finanza, che non sa dove mettere l’enorme liquidità di cui dispone, vede nell’ambiente la grande occasione per trovare rendimenti che una volta le garantiva quell’industria relegata oggi in disparte. Una suggestione che ha contaminato tutta la politica, senza lasciarsi andare a teorie cospirative circa il dominio della finanza.



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