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Libia, ultima chiamata. L’analisi di Profazio

Di Umberto Profazio

Uno scenario di frozen conflict nel quale, capovolgendo la celebre frase del Generale Carl von Clausewitz, le attuali trattative e negoziati non rappresentano altro che la continuazione della guerra per altri mezzi. È questo il presente e il futuro della Libia? L’approfondimento dell’analista dell’International institute for strategic studies e della Nato Foundation sulla situazione in Libia a dieci anni dalla Rivoluzione

L’esito non scontato del voto tenutosi il 5 febbraio scorso in Svizzera ha aperto nuovi spiragli di luce nella crisi libica, la cui peculiarità principale da dieci anni a questa parte sembra consistere nel tramutarsi con notevole disinvoltura da scontro politico a conflitto armato e viceversa, senza alcuna soluzione di continuità. Nonostante notevoli difficoltà abbiano ritardato a più riprese il negoziato condotto dalla United nations support mission in Libya (Unsmil), il voto dei 74 delegati del Libyan Political Dialogue Forum (LPDF) è infine riuscito a produrre un nuovo esecutivo temporaneo, ribattezzato Government of National Unity (GNU) per differenziarlo dal precedente Government of National Accord (GNA). Al di là della superflua distinzione semantica, con la quale si arricchisce ulteriormente la sempre più lunga lista di acronimi associati ai molteplici e sinora infruttuosi tentativi di state-building, l’insediamento di un nuovo governo dona senz’altro ulteriore slancio al processo di pace, offrendo nuovi spazi di manovra sinora chiusi dalla irriducibile rivalità tra il Generale Khalifa Haftar e il Primo Ministro del GNA Fayez al Sarraj.

Dalle urne di Ginevra è infatti uscito a sorpresa un nuovo esecutivo, guidato da Mohammed Younus al-Menfi, eletto a capo del Presidency Council (PC) e Abdul Hamid Mohammed Dbeibeh in carica come Primo Ministro di un governo di transizione, il cui scopo principale è quello di portare la Libia alle urne il 24 dicembre prossimo, come previsto dalla road map elaborata dall’ormai ex inviato speciale Stephanie Williams. Musa al-Koni (già membro del PC tra il 2016 e il 2017) e Abdullah Hussein al-Lafi vanno a completare il quadro del nuovo PC, la cui riforma soddisfa due esigenze fondamentali: garantire il principio dell’equa rappresentanza geografica per le tre regioni storiche della Libia e istituire un diaframma tra il PC ed il GNU, rendendo maggiormente autonoma l’azione di governo. L’accumulazione della cariche di capo del PC e Primo Ministro durante l’era Sarraj era stata infatti fonte di forte dissenso interno e causa principale della progressiva irrilevanza dell’organo.

Il basso profilo della nuova leadership transitoria ne ha agevolato il successo, se paragonato alla lista rivale, composta da Agila Saleh, Fathi Bashagha, Osama al-Juweili e Abdul Majeed Ghaith Seif al-Nasr. Data la forte polarizzazione del panorama politico libico, un’eventuale vittoria del ticket Bashagha-Saleh avrebbe probabilmente causato contraccolpi tali in entrambi gli schiarimenti da far deragliare anzitempo il fragile processo di pace. E ciò nonostante l’atteggiamento accomodante, al limite del trasformismo, da parte di entrambi i capilista – come evidenziato dalle dichiarazioni di Saleh durante la presentazione del suo programma di governo, nel quale ha sostanzialmente rinnegato l’offensiva militare ordinata da Haftar su Tripoli nel 2019, da lui stesso sostenuta in qualità di Presidente della House of Representatives e Comandante Supremo del Libyan National Army. E dall’evoluzione politico-diplomatica di Bashagha stesso, passato dall’essere l’interlocutore principale di Ankara in Libia al corteggiare Cairo e Parigi nel tentativo di accreditarsi ai loro occhi come candidato principale a succedere ad Haftar come “uomo forte” in grado di stabilizzare la Libia.

In qualità di “dinosauri” della politica libica (per usare la felice espressione di Williams) Bashagha e Saleh avrebbero inoltre impedito quel rinnovamento della classe dirigente, condizione non sufficiente ma necessaria per superare schemi e divisioni politiche ancorate ad altre ere geologiche e cominciare ad affrontare i problemi quotidiani della popolazione libica, quali l’assenza di servizi, i frequenti blackout elettrici, l’interruzione della fornitura di acqua potabile e l’emergenza sanitaria, aggravata non solo dall’impatto avuto dall’ultima fase del conflitto sulle infrastrutture ospedaliere e sul personale medico ma anche dall’acutizzarsi dalla pandemia di COVID-19. Se le proteste dell’Hirak libico ad agosto scorso erano il sintomo di una crescente intolleranza verso il partito dello status quo, il voto dell’LPDF testimonia l’esigenza di un ricambio generazionale assolutamente indifferibile. 

Dalle urne di Ginevra emerge la sensazione di vivere un momento chiave nella lunga fase di transizione, una prova di maturità da non fallire, ma che presenta nondimeno ostacoli di un certo rilievo. L’eclissarsi dei dinosauri (parziale, temporaneo e non irreversibile) non estingue il problema della governance, causa di rivendicazione trasversale agli altri Hirak sorti nel frattempo nel Maghreb. Le accuse di corruzione contro la famiglia Dbeibeh (che hanno tangenzialmente coinvolto anche il premier in pectore, a causa di una presunta compravendita di voti all’interno dell’LPDF) rischiano di intaccare la legittimità del nuovo esecutivo ben prima del suo insediamento, aggiungendosi alla consueta aggravante di un governo nato non in Libia, ma al di fuori dei confini nazionali. La composizione del nuovo GNU provocherà inoltre inevitabili malumori, marginalizzando alcune componenti sociali o tribali e creando un equilibrio precario. Il rischio principale è quello di produrre i presupposti per una riedizione dell’attuale rapporto di sudditanza tra un esecutivo debole e le diverse milizie, fornendo a molteplici spoiler l’opportunità di incunearsi tra le pieghe di un sistema disfunzionale e poco trasparente.

Con l’attenuarsi delle interferenze esterne, complice anche l’insediamento della nuova amministrazione americana e una minore propensione dei diversi attori regionali a ricorrere alla politica di potenza che ha contraddistinto l’ultima fase del conflitto in Libia, il principale banco di prova sarà presumibilmente la tenuta dell’accordo tra Haftar ed il vicepresidente del PC Ahmed Maiteeq sulla ripresa delle attività di esportazione di petrolio. Attorno alla ripartizione del proventi petroliferi, attualmente congelati nel conto della Libyan Arab Foreign Bank, continua a giocarsi la partita più importante, nella quale Haftar mantiene una posizione di indubbio vantaggio nonostante il fallimento della sua offensiva su Tripoli. Il sostegno dei mercenari russi della Wagner ha infatti consentito al generale di mantenere il controllo dei principali pozzi e terminal, offrendogli nuovamente l’occasione per dettare i termini per ogni soluzione negoziale, la quale passerà necessariamente dalla ripartizione dei proventi petroliferi, incidendo quindi sulla futura forma di governo. Nell’assenza di una tale soluzione negoziale, la costruzione di una trincea tra Sirte e Jufra da parte della stessa Wagner offre già una tetra anticipazione di una transizione incompiuta, nella quale la presenza di mercenari e forze militari straniere approfondisce la spaccatura regionale. Uno scenario di frozen conflict nel quale, capovolgendo la celebre frase del Generale Carl von Clausewitz, le attuali trattative e negoziati non rappresentano altro che la continuazione della guerra per altri mezzi.

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