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Caravaggio, la Messina del 600 e il fumetto. Intervista con Nadia Terranova

Di Gianmaria Tammaro

Ha sempre letto fumetti ed “è stato abbastanza naturale, per me, scriverne uno”, ha detto a Formiche.net Nadia Terranova sul suo primo fumetto. “Sono partita da Topolino. Negli anni della mia adolescenza, ho letto Dylan Dog. E poi sono arrivata ai romanzi a fumetti, ai cosiddetti graphic novel”. Conversazione con la scrittrice siciliana autrice di “Caravaggio e la ragazza, firmato con Lelio Bonaccorso ed edito da Feltrinelli Comics

In “Caravaggio e la ragazza”, edito da Feltrinelli Comics, ci sono tre storie. E sono le storie di Messina, di Caravaggio e di Isabella. Sono storie che procedono insieme, che si cercano, che a un certo punto finiscono per unirsi e per amalgamarsi. Siamo all’inizio del 1600. Caravaggio è a Messina per lavoro, Isabella ci vive, è figlia di un ricco mercante e vuole essere una pittrice.

Nadia Terranova, che firma la sceneggiatura, e Lelio Bonaccorso, che firma i disegni, hanno ricostruito un’epoca intera e hanno dato voce al mare e agli abitanti della città siciliana. Le strade sono vive, il porto è pieno di persone: c’è un ordine preciso nella confusione. E c’è pure un fraseggio continuo tra lingue: da una parte la musicalità del dialetto, dall’altra la compostezza dell’italiano.

Terranova – scrittrice siciliana nata a Messina – ha sempre letto fumetti. “Ed è stato abbastanza naturale, per me, scriverne uno”, dice. “Sono partita da Topolino. Negli anni della mia adolescenza, ho letto Dylan Dog. E poi sono arrivata ai romanzi a fumetti, ai cosiddetti graphic novel. Ne ho letti alcuni che mi hanno letteralmente devastata, come Persepolis di Marjane Satrapi. E ho amato moltissimo Lo scontro quotidiano di Manu Larcenet. I fumetti offrono infinite possibilità. Il lavoro che abbiamo fatto io e Lelio, però, è stato diverso”.

In che senso?

Non siamo partiti dal biografismo. Volevamo raccontare una storia. Una storia nostra, nuova, particolare. Lelio voleva parlare del suo amore per Caravaggio; io volevo dare vita ad Isabella, che resta un personaggio di finzione.

Una dei protagonisti è Messina: una città internazionale, aperta a tutti, vastissima.

E lo era. Dalla fine del ‘700 però è cambiata. E con il terribile terremoto del 1908 è stata completamente distrutta. È diventata una città che si piange addosso, di cui si parla male, e che ha perso la sua posizione centrale e ambitissima.

Tutto, spiega il vostro Caravaggio, si riduce alla ferocia.

Io sono molto legata a questa parola. Forse ultimamente ne sto abusando. Ma tendiamo a dimenticarne l’importanza. Le persone hanno paura di fare del male agli altri, e invece è esattamente quello che si deve fare scrivendo.

Perché?

Perché bisogna aprirsi ai conflitti, alle contraddizioni; bisogna ritrovare sé stessi, proprio come Caravaggio suggerisce di fare a Isabella. Nei conflitti, impariamo a raccontare. Se non ascoltiamo la nostra rabbia, non riusciamo a vederci veramente.

Isabella è legata alla madre scomparsa dal talento che ha per la pittura. E in un certo senso è più distante dal padre, che l’ha cresciuta.

È una cosa che ho notato nei figli di persone che sono morte giovani. In qualche modo, sono più indulgenti con i genitori che non ci sono più. Con quelli che restano, invece, si creano scontri.

In “Caravaggio e la ragazza”, viene fuori anche il maschilismo del mondo dell’arte.

Volevo raccontare l’annientamento. Non si parla di talento, nel caso delle pittrici. Si parla di inesistenza. Il padre di Isabella ha paura. Perché le pittrici non esistono, e lui non vuole questo destino per sua figlia. La storia del mondo dell’arte è una storia patriarcale, in cui il talento delle donne è stato cancellato più volte.

Il padre di Isabella, però, non agisce per farle del male.

Il suo, in un certo senso, è affetto: perché ci tiene a lei e vuole il meglio per lei. All’epoca essere pittrici non era possibile. Per questo abbiamo deciso di far incontrare Isabella e Caravaggio: per darle un’occasione.

Al talento si perdona tutto?

C’è uno slittamento dei piani, spesso. Se c’è un delitto, ci deve essere un procedimento giudiziario. Se c’è un comportamento sbagliato, c’è un sistema etico che deve intervenire. Ma le opere possono essere lette e viste anche anonime, senza una firma: vanno giudicate in quanto opere, non per i loro autori. A volte, addirittura, finiamo per leggere i libri solo di chi ci sta simpatico. E non credo che ci sia niente di più terribile.

Perché?

Perché cerchiamo solo conferme e tendiamo a reputarci migliori di quello che, in realtà, siamo. L’altro errore che si può fare è perdonare tutto alle persone geniali. Io, poi, ho dei grossissimi problemi con la parola perdono: è una parola che non sono mai riuscita ad assolvere.

Che cosa ha imparato scrivendo il suo primo fumetto?

Lavorare con un disegnatore è una prova di grande umiltà. Tutti gli scrittori dovrebbero farla. Molti vedono i disegnatori come dei meri esecutori delle loro indicazioni. E non è così. Io parto sempre da un rapporto co-autoriale, un rapporto in cui le idee rimbalzano da una parte all’altra, in cui tutti lavoriamo per lo stesso scopo. Il romanzo è diverso: la pagina è mia e solo mia mentre scrivo. Io decido ogni cosa: cosa c’è, cosa non c’è, cosa va omesso, cosa va citato.

In “Caravaggio e la ragazza”, il coro di sottofondo ha la voce del mare.

Quanto mi manca. Io farei sempre il bagno, e in questo periodo non posso nemmeno avvicinarmi agli scogli. Se vedo una pozzanghera, mi ci tuffo. Ho un rapporto viscerale con l’acqua. Sto bene mentre nuoto, e non ho mai paura.

Come si trovano le parole giuste?

Io parto sempre da quelle sbagliate.

Sono più interessanti?

Assolutamente sì. Bisogna evitare di abbandonarsi alla tentazione di trovare sempre la più bella. E bisogna avere il coraggio di inventare le proprie parole.

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