Skip to main content

Non solo Ilva: l’acciaio verde è un tema globale. Soluzioni e nuove tecnologie

Acciaio

Produrre il metallo più usato al mondo causa il 7-9% delle emissioni mondiali da combustibili fossili. Riconvertire un’industria così cruciale sarà un’impresa titanica, nonché un delicato gioco geopolitico. Ma la via maestra, più che dalla politica, passa dall’idrogeno

Il nascente governo Draghi vede la luce nei giorni giorni in cui si apre un ulteriore capitolo nella saga di ex Ilva, l’acciaieria di Taranto al centro di annosi conflitti e processi penali. Da un lato le istituzioni che premono per la conversione green, dall’altro le immense difficoltà tecniche e migliaia di posti di lavoro in bilico. Infine, all’orizzonte, la conferenza sul clima COP26 di Glasgow a novembre, co-presieduta dall’Italia.

Neanche a farlo apposta, lunedì mattina il Financial Times ha pubblicato un longform sulla conversione verde del metallo più usato al mondo. Che parte da una premessa: la neutralità carbonica entro il 2050 (obiettivo di Bruxelles) è impensabile senza intervenire drasticamente sul processo di produzione dell’acciaio, che a oggi rilascia più emissioni da combustibili fossili dell’intera India.

Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA), lo sprigionamento di CO2 dal processo di produzione dell’acciaio va almeno dimezzato nei prossimi trent’anni. Ma gli esperti avvertono anche che occorre investire di più nella ricerca, affinché la tecnica corra di pari passo con le ambizioni climatiche. Per ora, avverte l’IEA, l’obiettivo 2050 è a dir poco ottimista. Dopo la pandemia e il rilancio dell’economia (a cui è strettamente connessa), la transizione sostenibile è ufficialmente il problema più spinoso dei prossimi tempi.

L’insostenibile necessità delle acciaierie

Si tratta di un’industria da $2,5 triliardi che dipende quasi interamente dal carbone, la soluzione più efficiente e meno costosa per far funzionare gli altiforni che fondono i minerali primigeni. L’acciaio è un metallo essenziale, dall’edilizia ai trasporti fino agli elettrodomestici. È anche il materiale più riutilizzato sulla Terra, dunque indicato per l’economia circolare verso cui l’Occidente si sta muovendo. In una parola, è insostituibile.

Qui risiede il primo problema, di ordine tecnico: ad oggi, non esistono valide alternative all’altoforno. La soluzione più vicina è il forno elettrico ad arco, molto meno inquinante in termini di CO2 e utilizzato per produrre poco meno del 30% dell’acciaio globale. Purtroppo, però, si può impiegare solo con materiale riciclato, poiché fondere la materia grezza e produrre acciaio di qualità superiore richiede molto più calore. Gli esperti concordano sul fatto che ci sarà sempre bisogno di acciaio “vergine”; occorre quindi ripensare la produzione.

La rivoluzione verde passa dall’idrogeno, un combustibile ottenibile direttamente dall’acqua. Quando impiegato, rilascia perlopiù vapore acqueo. L’idea è di utilizzarlo per alimentare una fornace a riduzione diretta (tradizionalmente alimentata a gas naturale o carbone) per ottenere un acciaio detto “spugnoso”, uno stato intermedio da raffinare successivamente in un forno elettrico. Risultato: acciaio “verde”, emissioni quasi azzerate.

Solo tre impianti siderurgici al mondo stanno sperimentando questa tecnologia (gli svedesi di SSAB, gli austriaci di Voestalpine e ArcelorMittal). Ma il modello, benchè promettente, necessita di dosi massicce di energia rinnovabile per produrre idrogeno tramite elettrolisi. In pratica potrebbe essere implementato solo nei Paesi che producono la maggior parte dell’energia da fonti rinnovabili, altrimenti si torna punto e a capo utilizzando i combustibili fossili per produrre idrogeno.

Aziende come ArcelorMittal hanno pensato di ovviare al problema attraverso tecniche di cattura e stoccaggio o riconversione della CO2 per compensare quella che producono. Le associazioni ambientaliste criticano questo approccio, non solo perché ignora la radice del problema, ma per mancanza di prove convincenti che funzioni abbastanza bene su scala globale.

Acciaio

Chi paga?

FT stima che produrre acciaio tramite idrogeno, almeno inizialmente, costerà dal 20 al 30% in più. Rimane da vedere se gli investitori riterranno conveniente sobbarcarsi dei costi extra per scommettere sul futuro. Da parte sua, Bruxelles sta implementando un sistema di mercato del carbonio, che agevola gli investimenti green e penalizza progressivamente le aziende responsabili per la produzione di CO2.

Al momento, però, non è ancora abbastanza conveniente (o sicuro) scommettere miliardi di dollari sull’acciaio verde. Al netto dello stato della sperimentazione, il motivo principale è il costo estremamente ridotto del carbone unito alla sua capacità superiore di generare calore.

Lakshmi Mittal, CEO di ArcelorMittal, ha sottolineato che i clienti delle sue acciaierie dovranno essere “pronti a pagare” il sovrapprezzo dell’acciaio verde. La sua azienda, prima produttrice europea di acciaio, stima che la decarbonizzazione nell’ottica della neutralità climatica entro il 2050 costerà tra i 15 e i 40 miliardi di euro.

Dunque la sfida è nelle mani della classe politica, che deve saper creare una “carota” succulenta nella forma di ricerca, investimenti mirati e agevolazioni, ed evitare di ricorrere troppo al “bastone” della tassa sul carbone. Anche e soprattutto perchè, come ha ricordato Francesca Santolini durante l’ultima Live Talk di Formiche, il costo della transizione green non può gravare sulle fasce più vulnerabili della popolazione; la rivolta dei gilet gialli contro l’aumento della tassa sul diesel in Francia serva da monito.

Le proteste dei gilet gialli a Parigi nel 2018

Il lato geopolitico

La questione dell’acciaio verde è soltanto un pezzo del puzzle, inserito nella più grande operazione di riconversione dell’economia globale mai effettuata. Gli investitori paiono pronti a prendersi questi rischi, almeno a giudicare dalla domanda di titoli ESG (sostenibili) nei mercati, a patto però che il resto del mondo si ponga gli stessi obiettivi, in modo che un competitor meno limitato da standard inferiori di riduzione delle emissioni non possa eroderne facilmente la fetta di mercato.

L’Unione europea ha alzato l’asticella, proponendosi di abbattere le emissioni del 55% rispetto ai livelli preindustriali entro il 2050 e avviando lo studio di una “hydrogen roadmap”. Anche Joe Biden, appena insediatosi alla Casa Bianca, ha reinserito l’America negli accordi di Parigi (il benchmark internazionale per quanto riguarda la lotta al cambiamento climatico) e ha promesso di creare un centro di ricerca con l’obiettivo di “decarbonizzare il calore industriale necessario per produrre acciaio, cemento, e prodotti chimici”.

Eppure il baricentro della metallurgia non si trova in Occidente, perché la metà dell’acciaio prodotto al mondo viene dalla Cina. Gli altiforni cinesi sprigionano un terzo delle emissioni industriali del Paese, responsabile per un quarto delle emissioni di CO2 globali. Perlopiù, secondo l’analista di Goldman Sachs Michele Della Vigna (intervistato da FT) il Dragone genera due tonnellate di CO2 per ogni tonnellata di acciaio prodotta, il doppio dell’Europa.

Pungolata dall’Ue e approfittando del negazionismo climatico di Donald Trump, la Cina ha promesso di raggiungere la neutralità climatica entro il 2060, dieci anni dopo Bruxelles. Questo perché Pechino non vuole sacrificare troppo lo slancio economico del Paese in rapida espansione, ma sa di doversi allineare all’Occidente in merito al clima. I mercati occidentali potrebbero decidere di colpire l’export cinese, accordandosi per imporre tariffe sui prodotti più inquinanti (a livello di produzione) rispetto ai loro standard. Il rischio è che Pechino si risenta e venga meno agli impegni climatici.

Il progresso può accadere solo con la dovuta contrattazione e un’attenta coordinazione transatlantica, che Biden ha promesso di ravvivare con particolare riguardo per il clima. Il presidente americano ha anche dichiarato che è disposto a collaborare con la Cina sul clima, perché l’urgenza della crisi climatica è più pressante del confronto tecnologico-economico in atto tra le due superpotenze. Da parte sua, Bruxelles ha inserito clausole relative al clima nel recente accordo per gli investimenti con Pechino.

Acciaierie a Hebei, nella Cina settentrionale

E l’Italia?

Tenaris, Snam ed Edison hanno siglato il primo (e unico) accordo italiano per produrre idrogeno verde nello stabilimento di Dalmine, vicino a Bergamo. Le tre aziende condivideranno le loro risorse e tecnologie per creare la catena che dall’elettrolisi sostenibile porta alla produzione di acciaio verde. Il progetto, ancora in fase embrionale, include una centrale di produzione dell’idrogeno e un sito di stoccaggio.

Sul versante ArcelorMittal, lo Stato dovrebbe entrare nello stabilimento di Taranto tramite Invitalia, rilevandone il 60% e favorendo la transizione verde tramite la costruzione di un nuovo forno elettrico. Ma tra la crisi politica, i ritardi nelle operazioni e l’ultima sentenza del Tar di Lecce (che minaccia di far chiudere gli altiforni entro due mesi se non si contengono le emissioni nocive), la situazione è ancora da sbloccare.

Il dossier andrà rivisto dal nuovo ministro per lo sviluppo economico, il leghista Giancarlo Giorgetti, probabilmente in cooperazione con il capo del neonato ministero per la transizione ecologica, il tecnico Roberto Cingolani. È lecito supporre che parte dei fondi del Next Generation EU (di cui il 20% sarà destinato alla transizione ecologica) finiranno nello stabilimento di Taranto.

La regia politica e l’accento sulla ricerca saranno condizioni necessarie perché la svolta verso l’acciaio green diventi prima possibile, poi fattibile, e infine conveniente. Questo vale a livello italiano, europeo, transatlantico, globale. Al neonato governo Draghi va l’onore e l’onere di presentarsi alla COP26 con i “compiti fatti”, per dirla come il presidente della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile Edo Ronchi.


×

Iscriviti alla newsletter