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Così la pandemia ha cambiato la storia. Giuseppe Conte sale in cattedra

Di Giuseppe Conte

L’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha tenuta la sua Lectio Magistralis all’Università di Firenze, intitolata “Tutela della salute e salvaguardia dell’economia. Lezioni dalla pandemia”

Questa giornata segna il mio ritorno nella comunità accademica fiorentina, nella quale ho trascorso lunghi anni, densi di attività didattica e di ricerca, sempre a stretto contatto con gli studenti, esperienza, questa, che mi ha arricchito enormemente anche come uomo.

Ho accolto con gioia l’invito del Magnifico Rettore, Luigi Dei, a tenere questa lezione dal titolo “Tutela della salute e salvaguardia dell’economia. Lezioni dalla pandemia”, che dedico a tutti gli studenti, con l’auspicio che, in questi anni di studio, possiate affinare le vostre idee e approfondire i vostri progetti di vita, in modo da poterne raccogliere al più presto i frutti.

Un affettuoso saluto rivolgo anche a tutti i colleghi docenti, ai ricercatori, al personale tecnico-amministrativo.

– Pandemia.

L’emergenza che stiamo vivendo è, oggettivamente, la sfida più severa e pervasiva che il nostro Paese è chiamato ad affrontare dal secondo dopoguerra ad oggi.

Tutti gli aspetti della vita pubblica e privata, tutti i gangli fondamentali del nostro sistema di vita, tutte le attività individuali e collettive, le discipline che le regolano, le arti che le orientano, la politica, il diritto, l’economia, la cultura, hanno subito, per effetto della pandemia, un profondo sconvolgimento.

Ogni decisione che i governi sono stati chiamati ad assumere ha assunto i connotati di una “scelta tragica”, per richiamare un’espressione evocata da un celebre giurista contemporaneo, Guido Calabresi. Ogni decisione assunta ha avuto una portata diretta e incidente sulla vita e sulla salute dei cittadini, ed è risultata suscettibile di condizionare anche il futuro della nostre comunità.

Con lo scorrere del tempo, uscendo dall’orizzonte fortemente condizionante della cronaca ed entrando nella dimensione ampia e dilatata della storia, saranno possibili bilanci esaustivi e valutazioni ponderate.

Proverò adesso a ripercorrere con voi alcuni momenti della pandemia, senza pretese di esaustività. Non intendo entrare in valutazioni di merito rispetto alle varie decisioni che sono state assunte. Il significato di queste riflessioni è segnalare alcuni passaggi particolarmente complessi e le modalità attraverso cui sono state assunte talune fondamentali scelte, ricavandone alcune lezioni che proverò a proiettare nella dimensione europea e internazionale.

Potrei definirle “lezioni a futura memoria”, confidando che, con voi e attraverso voi giovani, come ammoniva Leonardo Sciascia, la “memoria abbia un futuro”.

L’Italia si è trovata ad affrontare per prima l’esplosione della pandemia in Europa e nell’Occidente.

Il 31 gennaio, all’indomani del primo episodio verificatosi a Roma, ricorderete la coppia dei turisti cinesi, abbiamo proclamato lo stato di emergenza nazionale per la durata cautelativa di sei mesi, affidando alla Protezione civile il compito di coordinare le attività di sostegno alle Regioni per fronteggiare l’emergenza.

Le difficoltà di gestione sono apparse subito evidenti. L’organizzazione del nostro sistema sanitario è di pressoché completa competenza delle Regioni, mentre allo Stato spetta dettare i principi fondamentali in materia di tutela della salute e assicurare i livelli essenziali delle prestazioni.

Il primo caso di un paziente italiano positivo venne scoperto a Codogno, il 21 febbraio 2020. Nel giro di poche ore, i contagiati salirono a 15. Pressoché contemporaneamente, nelle stesse ore, un altro focolaio venne scoperto in Veneto, a Vo’ Euganeo.

Appena rientrato a Roma da un vertice-fiume del Consiglio europeo, la notte del 21 febbraio mi recai subito nella sede della Protezione civile. Era necessario acquisire informazioni di prima mano e comprendere la portata di quel che stava accadendo dialogando con gli esperti e con le autorità regionali.

Il giorno dopo, il 22 febbraio, si svolse una riunione straordinaria del Consiglio dei Ministri presso la Protezione civile. Fu una riunione lunga e particolarmente sofferta, nel corso della quale analizzammo i “pro” e “contro” delle varie alternative, e operammo scelte ben precise, assumendo le prime fondamentali decisioni.

La prima alternativa che fummo costretti ad affrontare fu decidere se lasciare correre il virus o intervenire con misure restrittive utili a contenerne la diffusione. Ricordo che un filone di pensiero, anche vigorosamente sostenuto nell’ambito del dibattito pubblico, ha sin dall’inizio militato per il mancato intervento contenitivo, affidando, al più, agli ordinari mezzi del servizio sanitario nazionale il compito di fronteggiare il virus, al pari di qualsiasi altra malattia. Non sto qui a riassumere le varie ragioni poste a fondamento di questa reazione che possiamo definire “minimale”. Soprattutto nella fase iniziale della pandemia, la tesi del mancato intervento poggiava perlopiù sull’argomentazione che la letalità del virus fosse poco più elevata di una semplice influenza. Man mano che il contagio prese a diffondersi, le argomentazioni si concentrarono su tesi dichiaratamente negazioniste (una minoranza, per la verità) o presero a invocare l’incomprimibilità delle prerogative costituzionali attribuite alla persona e l’incompatibilità delle misure restrittive con il quadro dei nostri valori costituzionali. Sullo sfondo di queste posizioni, sono emerse concezioni anarchiche della libertà o anche concezioni che attribuiscono, di fatto, un primato alla “ratio economica” rispetto alla salvaguardia dei valori della persona.

I momenti iniziali, in particolare, sono stati molto complicati. L’Italia, per prima nel mondo occidentale, è stata chiamata a operare scelte risolute e del tutto inedite, vagliandone la compatibilità sul piano costituzionale, l’efficacia sul piano sanitario, l’efficienza sul piano economico, la sostenibilità sul piano sociale, finanche le ricadute sul piano psicologico.

Non disponevamo ancora di un quadro esauriente di cognizioni, le medesime informazioni che pervenivano dalla Cina non godevano di un sufficiente vaglio scientifico anche solo sul piano strettamente virologico ed epidemiologico. In ogni caso eravamo consapevoli che potevamo giovarci solo limitatamente di questo termine di confronto considerate le peculiarità che caratterizzano l’assetto politico-istituzionale ed economico-sociale dell’ordinamento cinese.

Molti altri Paesi dell’emisfero occidentale, anche europei, optarono all’inizio per lasciar correre la pandemia, in particolare nella prima fase, salvo poi tornare sui propri passi una volta constatata la non sostenibilità di questa opzione.

In questo difficile contesto, siamo stati costretti a operare scelte di contenuto, di metodo, procedimentali.

Scelte di contenuto, che potremmo meglio definire “teleologiche”.

Siamo partiti da una considerazione assiologica, da una premessa valoriale: nella nostra Carta costituzionale il diritto alla salute è l’unico ad essere espressamente definito come “fondamentale”.

La salute e la vita umana meritano le più elevate tutele anche perché sono condizioni preliminari per potere godere degli altri diritti e proteggere gli altri interessi della persona che l’ordinamento giuridico considera al pari fondamentali. Poco influente, nelle nostre considerazioni, è stato il rilievo che l’indice di letalità fosse più elevato nei riguardi delle persone anziane o con pregresse morbilità. Nel quadro dei princìpi costituzionali, l’uomo acquista i diritti fondamentali in modo automatico alla nascita e li conserva sino alla morte (per alcuni aspetti anche oltre) e certo nessuna valutazione riguardante l’età avanzata può giustificare privazioni o limitazioni di tutela, scelte queste che introdurrebbero logiche di selezione, prassi di darwinismo sociale del tutto incompatibili con la nostra Costituzione e con i nostri valori fondamentali. Del resto, una delle più significative prove di civiltà, per una comunità, è il modo in cui si prende cura dei propri membri più anziani e indifesi.

Via via che la pandemia si è diffusa, si è consolidata una ulteriore convinzione: è ingannevole il dilemma che prefigura un’alternativa tra tutela della salute e tutela dell’economia. Ad accedere a questa prospettazione, le misure per contenere il contagio e tutelare la salute dei cittadini provocando la compromissione del tessuto produttivo ed economico finirebbero per esporre una comunità nazionale, in prospettiva, a danni ancora più severi e irreparabili.

Questa rappresentazione – che sin dall’inizio abbiamo fermamente respinto – è risultata fuorviante nella misura in cui ha ipotizzato che il mancato contenimento del contagio potesse conciliarsi con uno svolgimento a pieno regime delle attività produttive e dei servizi. In realtà, questo scenario si è rivelato inverosimile. Lo abbiamo constatato anche qui in Italia, quando pur rimanendo le fabbriche formalmente aperte in tutto il Paese sono iniziati i primi scioperi, le prime massicce proteste di lavoratori che si rifiutavano di entrare nei luoghi di lavoro per la paura di rimanere contagiati. Divenne allora ben evidente a tutti che era impossibile pensare di tutelare la nostra economia senza tutelare il bene primario della salute dei lavoratori, senza introdurre cautele atte a rendere ben protetti e sicuri gli ambienti lavorativi. Di qui la svolta con la sottoscrizione, il 14 marzo, dopo un lungo confronto con le parti sociali, dei protocolli sulle condizioni di sicurezza nei luoghi di lavoro, un passaggio – questo – davvero significativo che consentì, disponendo misure adeguate di protezione, il rientro in sicurezza dei lavoratori, nelle aziende e nelle fabbriche.

In realtà, sottese alle misure restrittive introdotte nel nostro Paese e in tutti gli altri Paesi vi è sempre una valutazione ponderata che pone a confronto la tutela della salute con gli altri interessi della persona, pure costituzionalmente protetti. E’ la collaudata tecnica del bilanciamento dei diritti e delle libertà fondamentali, che ha il fine precipuo di individuare il punto di equilibrio che, nell’assicurare alla salute la tutela più intensa, comporti il minor sacrificio possibile degli altri diritti fondamentali pure coinvolti.

I governi nazionali, pur nella varietà di forme e di assetti, hanno operato tutti questo bilanciamento, rimettendo poi ai Parlamenti nazionali la verifica politica e alle corti deputate a operare il sindacato di costituzionalità, la verifica giudiziale.

Come ho anticipato, valutazioni definitive, scientificamente accreditate, saranno possibili solo a distanza di tempo, quando tutti i dati della pandemia saranno raccolti e puntualmente elaborati. Ma già dalle prime valutazioni empiriche appare chiaro che la tutela prioritaria della salute ha consentito di difendere meglio anche il tessuto produttivo del Paese e che le economie più resilienti si stanno dimostrando quelle in cui sono state introdotte adeguate misure contenitive del contagio, accompagnate da interventi di sostegno alle famiglie e alle imprese.

Scelte di metodo.

I princìpi ai quali ci siamo attenuti nella predisposizione e adozione delle misure contenitive del contagio sono particolarmente consolidati per quel che riguarda situazioni di rischio per la salute e per l’ambiente. Ci siamo affidati al principio di massima precauzione, cercando di calibrare le misure di protezione via via adottate sulla base dei criteri della adeguatezza e della proporzionalità dell’intervento stabilito rispetto all’obiettivo perseguito.

Sulla base di questi princìpi e criteri abbiamo dosato l’applicazione graduale delle misure, che sono diventate via via sempre più restrittive in considerazione della maggiore gravità e pervasività dell’epidemia.

Ovviamente non siamo entrati nel merito delle discussioni epistemologiche riguardanti l’efficacia scientifica del principio di precauzione. Vi è infatti un indirizzo di pensiero che non ritiene questo principio compatibile con il criterio di falsificabilità, che il filosofo Kar Popper pone a fondamento del metodo scientifico.

Il principio di precauzione è stato da noi assunto come strumento politico di gestione del rischio, basato su evidenze scientifiche, adeguato a tutelare il valore primario della salute dei cittadini.

Questo sistema, peraltro, è stato successivamente perfezionato e dopo svariate settimane di sperimentazione, lo scorso autunno, ha condotto all’adozione dell’attuale sistema di monitoraggio, basato su sofisticati algoritmi, che gode ormai di “corroborazione pubblica”, come direbbe Popper. E’ un sistema che contempla la classificazione dei vari territori in base a diversi scenari di trasmissione e livelli di rischio, a cui sono preventivamente associate misure proporzionate di contenimento. Con il risultato che a ciascun territorio vengono applicate misure ben differenziate, rigorosamente graduate sulla base della effettiva condizione di rischio epidemiologico.

Scelte procedimentali.

La nostra Costituzione non conosce una esplicita disciplina dello stato di emergenza e in questo si differenzia da altre carte costituzionali (penso alla Legge fondamentale tedesca che, in modo sofisticato, distingue “stati di emergenza” dovuti a fattori esogeni e a fattori endogeni, ma penso anche alla Costituzione spagnola che contempla lo “stato di allarme”, e alla Costituzione francese che contempla “eventi eccezionali” con accrescimento dei poteri del Presidente della Repubblica).

Uno dei problemi più delicati affrontati è stata la decisione sulla tipologia dei provvedimenti e le modalità procedimentali per mezzo delle quali introdurre le misure di contenimento del contagio e di mitigazione del rischio epidemiologico, nella consapevolezza che una pandemia così severa rischia di alterare in modo significativo l’equilibrio tra i diversi poteri dello Stato, rischiando di mettere a dura prova la solidità stessa di un sistema democratico.

Non entro nel merito del dibattito che si è sviluppato nel nostro come in altri Paesi, su cui anche illustri costituzionalisti sono intervenuti.

Osservo solo che abbiamo dovuto costruire un percorso che potesse consentire all’esecutivo di adottare ogni misura di contenimento idonea a fronteggiare la repentina evoluzione della situazione epidemiologica, coinvolgendo costantemente il Parlamento.

Ho già sottolineato che nell’attuale assetto costituzionale, in materia sanitaria allo Stato spetta la disciplina dei principi fondamentali mentre alle Regioni e alle Province autonome spetta l’organizzazione dei servizi sanitari.

L’art. 120 della Costituzione, al secondo comma, prevede il potere sostitutivo del Governo, poi concretamente disciplinato in particolare dall’art. 8 della legge 131/2003, in caso di “pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica”.

Non abbiamo mai preso in considerazione la possibilità di esercitare il potere sostitutivo dello Stato anche per un indirizzo squisitamente politico: abbiamo preferito coltivare un costante dialogo con le autorità territoriali, pur tra varie difficoltà e momenti critici, nella convinzione che il coinvolgimento dei vari attori istituzionali in una prospettiva di “leale collaborazione” ci avrebbe garantito una maggiore coesione nazionale e una più solida tenuta delle comunità di riferimento.

In un contesto del tutto inedito, abbiamo costruito un’articolata strategia normativa che tenesse conto delle caratteristiche dell’emergenza pandemica, che non è riconducibile a un evento che si esaurisce una volta per tutte – come può essere un terremoto o un’alluvione – ma assume i tratti di un processo in continua, imprevedibile evoluzione.

Questa strategia normativa è stata costruita su tre pilastri, : a) le ordinanze del Ministro della salute, che l’art. 33 della legge n. 833/1978, istitutiva del servizio sanitario nazionale, definisce di “carattere contingibile e urgente”; b) la dichiarazione dello stato di emergenza nazionale, deliberata dal Consiglio dei Ministri e più volte rinnovata, ai sensi dell’art. 7, 1° comma, del d.lgs. n. 1/2018, che ci ha consentito di attivare tutti i presidi di protezione civile e di sorveglianza sanitaria con possibilità di adottare interventi urgenti nelle forme di ordinanze; c) atti normativi primari (decreti-legge) e secondari (i dPCM).

I decreti-legge ci hanno consentito di indicare, tipizzandole, le misure di contenimento del contagio e di mitigazione del rischio epidemiologico e di rispettare le riserve di legge previste nella nostra Costituzione, con riguardo alle limitazioni delle libertà fondamentali. Essi hanno fornito la cornice di legittimità legislativa delle norme secondarie, che hanno introdotto le specifiche misure restrittive, inserite nei vari dPCM.

Non sarebbe stato possibile affidare l’intera regolamentazione ai soli decreti-legge, poiché l’imprevedibilità dell’evoluzione pandemica ci ha costretto a intervenire svariate volte anche a distanza di pochi giorni e, come sapete, la conversione dei decreti-legge va operata dal Parlamento entro 60 giorni, con la conseguenza che la medesima conversione sarebbe intervenuta, il più delle volte, a effetti ormai esauriti o comunque superati dal successivo decreto.

Il ricorso al decreto del Presidente del Consiglio, adottato su proposta del Ministro della salute, sentito il parere delle Regioni e degli altri Ministri competenti, è stato ispirato, quindi, dalla necessità di dotarsi di uno strumento particolarmente agile, in modo da intervenire prontamente in base all’evoluzione del contagio; in secondo luogo ci è apparso questo strumento anche il più idoneo a garantire l’applicazione delle misure in maniera uniforme per quanto necessario, coinvolgendo le Regioni e le Province autonome e, per le misure che incidevano sulla libertà di impresa, sull’iniziativa economica e sui diritti dei lavoratori, le parti sociali.

Il Parlamento si è pronunciato in sede di conversione dei vari decreti-legge e ha espresso costantemente note di indirizzo in corrispondenza delle “comunicazioni” fornite dal Governo sull’andamento della curva epidemiologica e sul contenuto dei vari dPCM, tendenzialmente con cadenza quindicinale.

Questa articolata strategia normativa e procedimentale ha consentito all’esecutivo di esercitare quei poteri di intervento necessari a calibrare le misure di prevenzione in corrispondenza dell’andamento della curva epidemiologica, senza che tale esercizio arrivasse a configurare poteri dell’autorità di governo extra ordinem suscettibili di alterare l’ordinaria dialettica democratica e, in particolare, il rapporto tra potere esecutivo e potere legislativo.

La corrispondenza dei poteri esercitati dall’esecutivo rispetto a scopi preventivamente dichiarati e ben individuati ha permesso al nostro sistema democratico di reggere a questa dura prova, evitando che lo “stato di emergenza” potesse tramutarsi in “stato di necessità”.

Rapporti tra politica e scienza.

Durante il periodo della pandemia è tornato prepotente il problema dei rapporti tra scienza e politica e, più in generale, tra scienza e società.

Particolarmente fitto è stato il dialogo del Governo con gli esperti componenti del Comitato tecnico-scientifico e con i rappresentanti degli istituti che statutariamente forniscono consulenza tecnico-scientifica in materia di sanità pubblica (tra gli altri: l’Istituto superiore di sanità e il Consiglio superiore di sanità).

Questo confronto è stato insistitamente cercato dal Governo al fine di offrire una base di evidenza scientifica alle valutazioni politiche di volta in volta effettuate.

Vero è che la grande attenzione mediatica nei confronti degli scienziati ha portato a evidenziare la grande varietà di opinioni che si genera in una comunità scientifica. Buona parte dell’opinione pubblica si è sentita smarrita sino al punto di conseguire una visione distorta dell’impresa scientifica.

Molti cittadini si saranno interrogati: come può la natura oggettiva dell’indagine scientifica conciliarsi con il suo essere, al tempo stesso, campo di controversie e di conflitti che acuiscono la sua esposizione al dubbio? E, ancora: ha senso, da parte della politica, cercare una base di evidenza scientifica alle proprie decisioni a fronte di questi conflitti, di queste controversie?

La disillusione rischia di generare vere e proprie pulsioni anti-scientifiche, una forte diffidenza nei confronti degli “esperti”. E’ questo in parte è accaduto anche in Italia. In realtà, il dubbio nella ricerca scientifica, come ci insegnano gli epistemologi, è un segnale di maturità, non già di debolezza. Hegel assumeva lo scetticismo come “l’energia della mente”. Il dubbio non mina, piuttosto rafforza le pretese conoscitive della scienza.

L’oggettività della scienza – come ci ha insegnato la filosofia della scienza già nel Novecento – non è il risultato dell’assenza di conflitti e di dubbi, ma l’esito di conflitti e di dubbi risolti e superati attraverso metodi, procedure, argomenti, sperimenti e osservazioni riproducibili da parte di tutti in ogni parte del mondo. È in questo senso che la scienza, in ogni sua articolazione concettuale, si configura come un’impresa intrinsecamente democratica, e le controversie che, all’interno del suo perimetro, si sviluppano e si alimentano talvolta con particolare vigore argomentativo sono un indizio di razionalità, anziché del suo contrario.

Considero quindi un bene che anche nello spazio pubblico si sia levato un più intenso dialogo tra politica e scienza. Ma il fine di questo sforzo operato dalla politica non può essere quello di demandare alla scienza la risposta ultima alle complesse sfide che la politica è chiamata ad affrontare.

Alla politica e solo alla politica spetta l’assunzione finale di responsabilità, perché è la politica che ha l’onere di operare una valutazione complessiva degli interessi in gioco, superando i conflitti nel segno di un bilanciamento, che, sulla base di canoni di ragionevolezza e proporzionalità, contemperi la massima tutela della salute dei cittadini con il minore sacrificio degli altri diritti pure costituzionalmente rilevanti.

In una fase particolarmente acuta della pandemia, un valente scienziato, da me sollecitato a fornire la sua opinione sulle misure che erano in discussione, mi obiettò: “Caro Presidente, se dovessi decidere dal mio angolo visuale terrei il Paese in perenne lockdown, essendo questa la misura più efficace per prevenire il contagio e proteggere la salute dei cittadini. Ma so io stesso che questa misura sarebbe insostenibile perché terrebbe ai margini tutti gli altri interessi coinvolti”.

Soltanto la politica, in effetti, alimentata dalle virtù del discernimento e della prudenza, può governare la complessità, offrendo uno sguardo unitario e una visione prospettica, in modo da assumere le necessarie decisioni per il bene comune, facendosi carico del destino di una intera comunità, muovendo dal principio fondamentale del rispetto dell’uomo, non considerato nella sua esemplarità, bensì colto nella concretezza della sua esistenza, nella consapevolezza della sua unicità e della sua straordinaria grandezza.

Europa

Non trarremmo lezioni sufficienti se fermassimo le nostre valutazioni alla dimensione interna, senza affacciare lo sguardo anche all’Europa.

E credo sia davvero importante, strategico coinvolgere voi giovani in questa riflessione sul futuro dell’Unione europea, sul ruolo che l’Unione è chiamata a svolgere nei decenni a venire, anche alla luce dell’esperienza emergenziale che stiamo vivendo. Discuterne con voi, sollecitando le vostre energie prorompenti, la vostra capacità di sognare e di perseguire anche le sfide più difficili è una preziosa opportunità. Ma anche una necessità. Le sfide del tempo presente sono complesse e presuppongono consapevolezza della nostra missione nel mondo. Quale Europa vogliamo, di quale Europa abbiamo bisogno, come ci percepiamo e rappresentiamo noi stessi nel continente europeo?

Sono domande che interpellano la nostra intelligenza, la nostra coscienza, che richiedono un patto intergenerazionale, che meritano la massima considerazione e la più schietta autenticità di risposta.

In un mondo globalizzato in cui l’economia sembra avere preso il sopravvento sulla politica e sul diritto e dove abbiamo più volte constatato che il peso di una scelta economica assunta a molte longitudini di distanza può avere stringenti ripercussioni sulla nostra comunità nazionale, dobbiamo essere ormai consapevoli che uno Stato nazionale, ove ripiegato su se stesso, non può essere in grado di rispondere alle sfide più complesse.

Le esperienze della solitudine e dell’isolamento possono essere molto pesanti per i singoli individui, ma diventano gravi iatture per gli Stati nazionali. Il filosofo Gadamer invitava a distinguere: l’isolamento è l’esperienza di una perdita che si subisce, la solitudine è l’esperienza di una rinunzia che si cerca. Ma in entrambi i casi le prospettive di crescita economica e di sviluppo sostenibile si riducono drasticamente.

E’ per questo che siamo chiamati a operare uno sforzo comune, alimentato da grande senso di responsabilità: abbiamo il compito di rilanciare il progetto europeo, facendogli riacquistare piena credibilità e coesione, in modo da accrescerne la sostenibilità, la plausibilità.

La storia dell’Europa moderna e contemporanea è stata segnata da profonde divisioni e lacerazioni, che hanno definito e forgiato un pluralismo articolato, ricco di lingue, di identità culturali, di tradizioni.  Pur tuttavia, quelle società hanno conosciuto una feconda contaminazione culturale, giuridica e sociale. Abbiamo sempre più integrato i nostri sistemi economici, i nostri modelli educativi, le nostre legislazioni sociali, cedendo spazi di sovranità e trasferendo competenze via via sempre più importanti dagli Stati all’Unione. Abbiamo consentito ai cittadini dei diversi Stati membri di poter circolare liberamente nel territorio europeo, concepito come uno spazio giuridico unitario. La libera circolazione delle persone, più ancora della libera circolazione delle merci e dei capitali, è stata una delle più significative conquiste nel processo di integrazione europea, se solo si considera il carico di odio nazionalista e di ripiegamento identitario che aveva attraversato il continente tra la fine del XIX secolo e la prima metà del XX secolo e che era drammaticamente deflagrato nei due conflitti mondiali. Voi giovani non dovete mai rinunciare a questa libertà fondamentale di movimento, grazie alla quale avete la possibilità di accrescere il vostro patrimonio di esperienze umane, culturali e professionali, accogliendo le specificità nazionali sempre più come declinazioni di una stessa sensibilità, come diverse modalità di partecipare a un “comune sentire”.

Il processo di creazione di un popolo europeo è stato anche fortemente alimentato dalla dimensione giuridica. La cultura giuridica ha assunto, in questi anni, un ruolo decisivo nella creazione di un “idem sentire” e fondamentale è stata l’azione svolta, ciascuna nel proprio ambito di competenza, dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e dalla Corte di Giustizia, in stretto raccordo anche con le Corti costituzionali nazionali. Per questa via si è realizzato uno spazio giuridico europeo, rafforzato, sul piano della effettività, da un sistema raffinato e compiuto di tutela multilivello dei diritti fondamentali della persona, che ha alimentato la consapevolezza, nei cittadini europei, di essere parte di un destino condiviso, di essere popolo nel senso di comunità partecipe di uno stesso fecondo processo di civilizzazione.

Nonostante tutto questo, però, abbiamo stentato nel diventare compiutamente un “popolo”, non abbiamo avuto il coraggio di costruire un modello inclusivo che, realisticamente, al di là di ogni retorica, favorisse la creazione di un demos europeo.

Soprattutto a partire dal 1989, è mancata – salvo alcune isolate eccezioni – una visione autenticamente “politica” dell’Unione europea, una prospettiva di lungo periodo, orientata al futuro, senza la quale ogni progetto si arena, ogni sogno scolora, sopraffatto dalla ordinaria amministrazione. È mancato lo slancio “profetico”, che invece conobbero i grandi statisti del secondo dopoguerra. 

Ad aggravare questa assenza di visione prospettica, negli ultimi trent’anni, la governance europea si è fortemente ancorata alla pura dimensione economica, in una prospettiva univocamente orientata all’attuazione di indirizzi liberisti, tesi a favorire privatizzazioni di servizi e beni essenziali, riduzioni delle regolamentazioni in settori economici vitali, contrazioni del sostegno sociale e delle politiche di Welfare, con effetti devastanti sul piano sociale, dal momento che hanno accresciuto le diseguaglianze nella ricchezza e nelle opportunità.

Anche la politica ha finito per rinunciare alla sua funzione legittimante e rappresentativa, apparendo – agli occhi dei cittadini – distante e “oligarchica”, incapace di comprendere i reali bisogni della collettività. È divenuta, come è stato acutamente osservato dal politologo Jan Zielonka, “un parametro cerimoniale a copertura di operazioni globali molto complesse, largamente incomprensibili, se non segrete”.

La pandemia è intervenuta quando ormai il popolo europeo stava fortemente rumoreggiando, quando stava manifestando una forte carica oppositiva verso le élites, lamentando il fallimento della politica, asservita alle ragioni dell’economia.

La pandemia è intervenuta a cambiare il corso della storia.

L’Europa, dopo alcune settimane di disorientamento, ha compreso la gravità e la pervasività dello shock provocato dalla pandemia e ha risposto in maniera efficace e per più di un verso innovativa: ha attivato nuove linee di credito inserendole in strumenti tradizionali; ha sospeso il Patto di stabilità e di crescita e le ordinarie regole fiscali; è intervenuta con la Bce con una serie di misure di politica monetaria e vigilanza bancaria, tra cui il programma straordinario di acquisto per 1.850 miliardi di euro al fine di ridurre i costi di finanziamento e incrementare il credito nell’area dell’euro.

Infine, ed è questa la novità più significativa, è stato inserito nel Quadro finanziario pluriennale per il 2021-2027 un nuovo strumento: Next Generation EU, che prevede un ingente piano di finanziamenti, destinati non solo a riparare i danni economici e sociali prodotti dalla crisi pandemica ma anche a stimolare la ripresa e una maggiore resilienza degli Stati membri.

La straordinaria novità di questo piano è che le risorse previste, di cui l’Italia – come è noto – è il maggiore Paese beneficiario, saranno rese disponibili attraverso l’emissione di debito comune europeo.

Io credo che questa iniziativa sia suscettibile di imprimere una svolta davvero significativa nella storia dell’Unione europea, scandendo un salto di qualità nel processo di integrazione. Il salto di qualità è misurabile anche dagli ostacoli che sono stati frapposti all’introduzione di questo nuovo strumento.

Il percorso è stato faticoso, sin dalle prime discussioni che si sono caratterizzate per una tenace resistenza da parte della maggioranza dei governi degli Stati membri dell’Unione, che ritenevano di avere assolto al loro compito introducendo la nuova linea di credito all’interno del Mes, il Meccanismo europeo di stabilità, pensato, tuttavia, per shock asimmetrici, affidato a un accordo intergovernativo, e comunque inadeguato a fungere da strumento di ricostruzione del mercato unico dopo una crisi così devastante.

Anche la prima iniziativa formale, promossa dal governo italiano, la lettera del marzo 2020, sottoscritta da altri nove governi europei, non riuscì a segnare un punto di svolta nel dibattito in corso.

Furono necessarie altre riunioni del Consiglio europeo sino alla famosa riunione del luglio 2020, accompagnate da un’attenta strategia basata sul dialogo diretto con le opinioni pubbliche nazionali più diffidenti, in particolare quella olandese e quella tedesca, attraverso interviste a giornali e tv in modo da rimuovere i pregiudizi e creare un indirizzo finalmente favorevole alla introduzione di un innovativo strumento di finanziamento basato sul debito comune europeo.

Ora occorre adoperarsi affinché questa iniziativa, pur nata nel contesto di una specifica, severa crisi economica e sociale, possa essere stabilmente acquisita nel quadro delle politiche europee.

Gli strumenti di finanziamento alimentati per mezzo del debito comune sono risposte ben idonee ad assicurare la stabilità finanziaria dell’Europa, ma soprattutto ad incentivare una crescita sostenibile, per un’Europa più ecologica, più digitale, più resiliente, nel segno della inclusione sociale e della riduzione delle varie diseguaglianze: di genere, intergenerazionali, territoriali.

Questa crisi pandemica costituisce un gravissimo shock per l’Europa e per il mondo intero. Ma offre anche l’opportunità di progettare in maniera più lungimirante e consapevole il futuro dell’Europa unita.

È un’occasione preziosa per recuperare il tempo perduto, per invertire il processo di progressivo distacco tra governanti e governati che può determinare l’implosione del mondo che avevamo conosciuto. Non dobbiamo avere paura dei conflitti, ma dobbiamo mostrarci pronti a governarli e lo strumento migliore, la pratica più efficace per affrontarli e comporli in una sintesi superiore è, ancora una volta, la “politica”.

La politica deve perseguire un europeismo critico, non fideistico, come spesso ho sottolineato. Un approccio di autentica “conversione”, che consapevolmente recuperi e rilanci, attualizzandole, le ragioni fondative del sogno europeo. 

C’è euforia per le professioni di fede “europeiste” che si sono moltiplicate, in Italia, in queste ultime settimane, tanto più che alcune di queste sono giunte inopinate. Ma l’europeismo non è una moda. Il modo migliore per contrastare i ripiegamenti identitari è lavorare, con lungimirante concretezza, per rafforzare la credibilità e l’affidabilità della comune casa europea. Altrimenti, quando il vento cambierà e torneranno a spirare i venti nazionalisti, sarà molto complicato riuscire a contrastarli con la forza di soluzioni solide ed efficaci.

Riassumo alcuni obiettivi che giudico prioritari, soprattutto in vista della “Conferenza sul futuro dell’Europa”, di imminente avvio, che tornerà molto utile per migliorare la traiettoria dell’Europa unita:

rafforzare l’ordinamento democratico europeo, potenziando il ruolo e i poteri del Parlamento europeo, riconoscendogli anche un potere generale di accountability rispetto alle altre Istituzioni e introducendo istituti di democrazia diretta, in modo da scongiurare la diffusa percezione da parte dei cittadini che le politiche europee vengano decise in luoghi poco accessibili e in ambienti tecnocratici;

mettere al centro delle politiche europee il lavoro quale strumento di “dignità sociale” dei cittadini europei. Il Trattato di Lisbona, il Vertice di Göteborg del 2017 hanno prospettato una svolta. Ma questa svolta va ora attuata con strumenti efficaci di assicurazione europea contro la disoccupazione e di protezione europea del salario. Lo strumento SURE di sostegno temporaneo contro i rischi della disoccupazione va nella giusta direzione, ma bisogna incrementare e stabilizzare queste iniziative;

rafforzare una governance economica che sia basata su un effettivo equilibrio fra condivisione e riduzione dei rischi; un bilancio dell’area-euro che sia dotato di una funzione di stabilizzazione è da favorire perché migliorerebbe la competitività e la convergenza;

una politica migratoria che offra una prospettiva di gestione dei flussi migratori davvero europea, costruita sull’equa condivisione della responsabilità e sulla solidarietà della redistribuzione, perché le migrazioni – lo abbiamo bene sperimentato – sono fattori di divisione e alimentano gli egoismi nazionali;

un’Europa forte e competitiva nel mondo, per tutelare i suoi cittadini dagli effetti collaterali della globalizzazione.

Questa emergenza pandemica ci ha precipitato ancor più in una condizione di “incertezza”, che è poi lo spazio che, come ci insegnano i filosofi, viene sottratto dalla progressione della conoscenza.

Per affrontare questa incertezza e affrontare adeguatamente altre sfide globali quali il cambiamento climatico, il commercio internazionale, l’impatto sociale del progresso tecnologico occorre una solida premessa e un chiaro indirizzo metodologico.

La solida premessa è un’Europa più forte, più ambiziosa, più coesa, che rafforzi la sua tradizionale capacità d’interlocuzione con gli Stati Uniti, preservando il valore strategico di questa relazione, ma che non rinunci al dialogo con altri stakeholder che giocano un ruolo fondamentale nel contesto internazionale quali la Russia e la Cina, sollecitando questi ultimi a promuovere un loro “engagement” a tutto campo.

Il chiaro indirizzo metodologico è il multilateralismo, che è un modello di gestione dei conflitti fondato su una logica di “responsabilità condivisa”, e quindi sul dialogo e sull’inclusività. Non sempre la pratica del multilateralismo ha dato buona prova di sé nel corso della storia, anche quella più recente. Ma è evidente che la modalità più efficace per affrontare crisi, sfide e minacce globali, in uno spazio che non conosce confini, è praticare un indirizzo cooperativo che stimoli gli Stati, sulla base di norme e valori universali, a perseguire politiche comuni, ragionevoli e inclusive.

In piena pandemia, a maggio 2020, l’avere sottoscritto un solenne “patto per il vaccino”, insieme a vari leader tra cui Merkel, Macron, Michel, von der Leyen, avere riconosciuto il vaccino come “bene pubblico globale unico del 21° secolo”, avere compreso subito l’importanza di sostenere insieme la scienza e la solidarietà, avere assunto l’impegno pubblico di rendere disponibile e accessibile il vaccino a tutti è stata la conferma dell’utilità di un nuovo approccio nel segno della cooperazione invece della competizione.

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Mi avvio a concludere. Cari studenti, ciascuno di voi saprà trarre da questa pandemia lezioni ulteriori, rispetto a quelle che ho sin qui provato a riassumere. Lezioni anche più profonde delle mie, e comunque sicuramente personali e, per questo, “autentiche”.

Stiamo vivendo tutti un’esperienza sconvolgente. Ciascuno di noi avverte il bisogno di operare un’“attribuzione di senso” a quel che sta accadendo.

Molti di voi avranno da offrire una risposta. E questa risposta è importante perché è la propria, personale risposta.

Altri stentano a trovare una risposta. Continueranno a cercarla.

Da parte mia, posso dire che ho scoperto l’orgoglio di appartenere a una grande comunità nazionale. Una “comunità di individui” che sa riconoscersi in un comune destino, come direbbe Norbert Elias.

Ho avuto conferma anche dell’importanza di avere studiato tanto, di avere fatto buone letture. I libri sono “moltiplicatori di esperienze”, aiutano a discernere la realtà. Umberto Eco ha scritto che “chi non legge vive solo una vita, chi legge vite tante vite”. Quando è scoppiata la pandemia, da subito, sono riandato con la mente a pagine lette molti anni addietro, alle pagine della Peste di Camus, dei Promessi sposi di Manzoni, alle pagine di Cecità di Saramago.

Grazie alla memoria di queste letture mi è sembrato, alcune volte, di affrontare esperienze già vissute.

Cari studenti, questi anni che state dedicando alla vostra formazione sono preziosi. Non dismettete mai quella sana, curiosa attitudine di approfondire le vostre conoscenze. Non lasciatevi intimorire dall’incertezza e dal dubbio.

Il dubbio è il giusto antidoto contro la trappola delle illusioni e delle false certezze. E’ il motore della conoscenza scientifica. L’importante è che il dubbio non tramuti in diffidenza paralizzante. Edgar Morin ha osservato che “La necessità del dubbio è cresciuta nella nostra epoca dove false informazioni, dicerie, pettegolezzi non sono veicolati solo dal passaparola, ma vengono propagati con una velocità e un’ampiezza inaudite tramite Internet. Bisogna sapere anche che il dubbio incontrollato e illimitato si trasforma nella certezza paranoica che è tutto falso o menzognero. Bisogna anche saper dubitare del dubbio”.

Vi auguro buone letture, buono studio. E vi auguro di moltiplicare quanto più possibile le vostre esperienze.

Buon semestre!


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