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200 prof. britannici sotto indagine per i legami con Pechino. I prossimi in Italia?

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Circa 200 accademici in tutto il Regno Unito sotto indagine per aver aiutato inconsapevolmente il governo cinese a realizzare armi di distruzione di massa violando le leggi sull’export di tecnologia sensibile. Dopo gli alert Fbi, ora quelli degli 007 britannici. E da noi?

Circa 200 accademici britannici sono accusati di aver aiutato inconsapevolmente il governo cinese a costruire armi di distruzione di massa violando le rigide leggi sull’export e la proprietà intellettuale. A rivelarlo è il quotidiano britannico Times, secondo cui il governo sta per inviare le notifiche ai docenti, impiegati in “più di una dozzina di università britanniche”. Rischiano fino a dieci anni di carcere se condannati per violazione dell’Export Control Order 2008 in relazione all’esportazione non autorizzata di tecnologie militari come aerei, progetti missilistici e armi informatiche. “Se anche il 10 per cento portasse” a condanne, “vedremmo circa 20 accademici andare in prigione per aver aiutato i cinesi a costruire super armi”, ha spiegato una fonte al giornale londinese sottolineando la portato dell’inchiesta.

L’intelligence britannica, scrive il Times, teme che la proprietà intellettuale britannica possa cadere nelle mani del governo cinese, aiutando Pechino a sviluppare armi di distruzione di massa o a reprimere i dissidenti politici e le minoranze come i musulmani uiguri. Alle rivelazioni della stampa il governo ha risposto con una semplice dichiarazione in cui ha confermato la necessità di attenersi alla legge del 2008.

Ma potrebbe non bastare, specie in questa fase di rapporti tesi con Londra per una serie di questioni (da Hong Kong allo Xinjiang fino al 5G di Huawei). Tutto nasce dall’editoriale pubblicato domenica da Tom Tugendhat, presidente della commissione Affari esteri della Camera dei comuni già in prima linea nella battaglia sul 5G cinese, sul Mail on Sunday. L’influente membro del Partito conservatore invitava il governo a una stretta: “deve introdurre regole che regolino la ricerca che gli istituti di istruzione superiore britannici portano avanti con il coinvolgimento, la sponsorizzazione o il sostegno della Cina”, scriveva. “Particolare attenzione deve essere rivolta alla scienza e alla tecnologia, dove è chiaro che il nostro vantaggio competitivo viene consegnato a un avversario strategico”.

Tugendhat citava un recente rapporto del think tank britannico Civitas, che definisce “inadeguato” il controllo governativo sui legami tra università britanniche e governo cinese. La ricerca e la tecnologia possono “inavvertitamente” finire nelle mani dei produttori militari cinesi attraverso sponsorizzazioni e collegamenti di ricerca, si legge. Secondo il rapporto almeno 15 università britanniche hanno instaurato rapporti con 22 università cinesi collegate all’esercito di Pechino, molte delle quali sono considerate “ad alto rischio” dall’Australian Strategic Policy Institute. Tugendhat prendeva dal rapporto tre casi di legami pericolosi: quello dell’università di Cambridge con l’Università nazionale di tecnologia della difesa, sanzionata dagli Stati Uniti per lo sviluppo di missili nucleari; quello delle unità di ricerca dell’Imperial College sponsorizzate da produttori cinesi di armi cinesi, tra cui l’Aviation Industry Corporation of China, che sta progettando l’ultima generazione di caccia stealth; quello dei centri scozzesi, uno dei quali sta studiando il radar jamming con un laboratorio militare in Cina.

Come reagire? L’editorial board del Times ha pubblicato un commento dal titolo eloquente: “Academic decoupling”. L’età dorata delle relazioni tra Regno Unito e Cina sotto David Cameron è finita, lo scenario globale è cambiato, non è più tollerabile che Pechino limiti il diritto di parola nelle università britannica facendo leva sugli ingenti finanziamenti. Certo, “il Regno Unito e l’Occidente non possono separarsi completamente dalla Cina”. Ma “è necessario un nuovo quadro per governare la collaborazione, e questo può venire solo dai governi”. Non dalle università, dunque.

Nei giorni scorsi raccontavamo un altro episodio di “ingaggio” cinese nelle università occidentali: l’arresto per frode di un professore del Mit di Boston che non aveva dichiarato finanziamenti dal governo di Pechino. Per gli inquirenti aveva agito con lealtà verso il Dragone. L’Fbi aveva spiegato di aprire un’indagine di controspionaggio cinese ogni 10 ore. La campanella di Washington e Londra suona un allarme anche a Roma, forse.

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