In qualche ora abbiamo perso due possibili (e seri e autorevoli) nuovi Presidenti della Repubblica. Ma (forse) abbiamo guadagnato un primo ministro che potrebbe guidarci verso una luce fuori dal tunnel, che non sia quella del treno che sta per travolgerci, scambiata qualche volta, per la sospirata uscita… La rubrica di Pino Pisicchio
Solo Di Battista, in perfetto stile vetero-populista (rima in coerenza) ha storto il naso di fronte al nome di Mario Draghi, gettando così le basi per la sua scissione celodurista del Movimento Cinque Stelle. Il resto del mondo politico italiano sembra come la terra del cinque maggio manzoniano al nunzio: resta quasi “muto”. O al più bisbiglia parolette imbarazzate ma condiscendenti. Perché è sempre difficile parlare male di Garibaldi.
Chapeau, allora, al Presidente Mattarella che, spazzando via le minuzie di una politichetta da Paese dei campanelli, incapace di capire che ha sbagliato operetta e sta facendo, invece, l’ultimo valzer sul Titanic, ha alzato il tiro al livello massimo, senza accedere al minuetto usuale, spiazzando i leaderini prêt-à-porter e dando un corpo all’inconscio collettivo in cerca di qualcosa di serio e competente. Gli ha fatto subito eco lo spread, calato al 108 alle 11 del giorno dopo l’annuncio. Dal punto di vista di Draghi si tratta di un “obbedisco” che racconta un amore per l’Italia e senso civile del servitore dello Stato. Perché, a ben vedere, ha tutto da perdere entrando nella partita da primo ministro in una comunità politica che continua a ballare sulla tolda della nave che affonda, spezzettandosi in varie tribù chiamati gruppi parlamentari (sempre da moltiplicare per due, perché il sistema è bicamerale).
In questo “obbedisco”, oltre alla fatica di cambiare la sua forma mentis in modo da capire le baruffe minori della politica italiana, c’è anche una rinuncia molto grande: la possibilità di essere scelto come Presidente della Repubblica tra un anno esatto. Quindi dobbiamo rispetto a Draghi ed anche a Mattarella, che ieri ha adottato una citazione di Antonio Segni, per dire a lettere cubitali: “Non chiedetemi di tornare per una seconda volta al Quirinale”. Così in qualche ora abbiamo perso due possibili ( e seri e autorevoli) nuovi Presidenti della Repubblica. Ma (forse) abbiamo guadagnato un primo ministro che potrebbe guidarci verso una luce fuori dal tunnel, che non sia quella del treno che sta per travolgerci, scambiata qualche volta, per la sospirata uscita.
Il Capo dello Stato ha fatto riferimento ad un mandato molto largo e non strangolato da formule prefabbricate. Dunque Draghi potrà andare a cercare la fiducia in Parlamento, secondo il dettato costituzionale, senza dover necessariamente limitare la sua proposta ad una maggioranza definita. Il che potrebbe prefigurare un’ipotesi di governo “tecnico” nella tradizione, tutta italiana, delle grandi emergenze economiche (Dini, Ciampi, Monti: guarda caso uomini di Bankitalia o economisti di notorietà internazionale). Forse, però, in questo nuovo caso potrebbe giovare un approccio più morbido con la politica, visto che la fiducia la si può pure conquistare ma poi resta il problema di far passare le scelte del governo in parlamento.
Forse, allora, un governo tecnico-politico, che coinvolga esponenti delle forze parlamentari che garantiscono la fiducia, e insieme assicuri ruoli chiave nell’esecutivo a personalità indiscusse sul piano della competenza, potrebbe apparire più opportuno. E se, per ipotesi remota, tutti i partiti presentatisi alle elezioni del 2018 dovessero dire sì a Draghi, si potrebbe persino battere la strada del governo direttoriale: tutti dentro. È una cosa rara, funziona, non a caso, solo in Svizzera. Ma stai a vedere…