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Teresa Ciabatti tra invidia e consapevolezza racconta la natura umana

Di Gianmaria Tammaro

La scrittura di Teresa Ciabatti ha un ritmo preciso, riconoscibile; ha una voce. Quando si parla dei suoi libri, spesso si parla di cattiveria, di commenti smaliziati, diretti, taglienti. E invece quella di Teresa Ciabatti è solo onestà. In “Sembrava bellezza” (Mondadori) il corpo della scrittrice e dei suoi personaggi, e di tutto quello che passa sotto la lente di ingrandimento della storia, è nudo, spoglio, lasciato a cuocere al sole, alla mercè dei commenti e delle critiche, e proprio per questo è bellissimo

Nei libri di Teresa Ciabatti, finzione e realtà sono una cosa sola: alcuni dettagli sono credibili, veri, rintracciabili; altri sono frutto unicamente della sua immaginazione. La cosa straordinaria è che, tra i due, è impossibile scegliere. Lavorano insieme, fianco a fianco, e riescono a portare il racconto – la cosa, cioè, narrata – ad un altro livello: non superiore, ma altro, differente, alieno. La scrittura di Teresa Ciabatti ha un ritmo preciso, riconoscibile; ha, insomma, una voce. Quando si parla dei suoi libri, spesso si parla di cattiveria, di commenti smaliziati, diretti, taglienti. E invece quella di Teresa Ciabatti è solo onestà. Vede il mondo per quello che è, e lo fotografa. A volte, forse, lo capovolge, sceglie un’angolazione particolare, più adombrata: ma cattura qualcosa di imprescindibile, di antico; qualcosa che è dentro di noi, e che urla in continuazione. Quello che pensiamo tutti e che in pochi – pochissimi – abbiamo il coraggio (e la pazienza, e la reale intenzione) di dire.

In “Sembrava bellezza” (Mondadori) il corpo della scrittrice e dei suoi personaggi, e di tutto quello che passa sotto la lente di ingrandimento della storia, è nudo, spoglio, lasciato a cuocere al sole, alla mercé dei commenti e delle critiche, e proprio per questo è bellissimo. Si parla di invidia, in questo libro. Ma pure, quasi indirettamente, di consapevolezza. Chi racconta ricorda la sua infanzia e la sua adolescenza, e in qualche modo le mette a confronto con quello che è diventata: una scrittrice, una persona famosa, un personaggio da salotto televisivo, una che parla, che dice la sua, che viene pagata per esprimersi; una che, nella sua mente, ha sempre provato certi discorsi, certi confronti, e che ora può finalmente dirli, può rispondere all’amica che la cerca: “Non posso, ho un’intervista”.

In “Sembrava bellezza”, l’imbarazzo è una cosa normale, giusta, una cosa che non va nascosta, ma che va mostrata, messa in luce, che può essere usata – talvolta in modo letterale – per ribaltare i punti di vista. Ciabatti mette insieme gli estremi, gli opposti. Parla della sua protagonista, questa scrittrice che in qualche modo sembra essere lei, ma che è pure completamente diversa; e parla anche di quelli che ora la rivedono, la riscoprono e che, come la sua vecchia compagna di scuola, la cercano. Solo perché ha avuto successo. Tutti vogliono un pezzettino dei suoi risultati, della sua visibilità. Tutti vogliono poter dire: io ti conosco, so chi sei, l’ho sempre saputo. Tutti vogliono potersi dire intimi, fedelissimi, amici di una vita; e tutti vogliono poter parlare di lei, potersi beare della sua luce riflessa, e sorridere come sorride lei.

In questi anni, subito dopo “La più amata”, Ciabatti ha scritto molto anche sui giornali, e sui giornali si è occupata di cronaca, di sparizioni, di tragedie. Ha cercato l’unico tra gli esseri umani, e ha messo insieme una casistica precisa, preziosa, che rappresenta a sua volta un filone letterario. In “Sembrava bellezza”, questa cronaca morbosa, fatta di segreti, di non detti, di disperazione, ritorna. L’amicizia, in questo libro, è quella di comodo, è quella approssimativa, quella che riappare come un lampo nel buio: quando meno te l’aspetti e inutilmente. E la bellezza, quella del titolo, diventa una maledizione. Tutte, da piccole, invidiavano Livia, la sorella di Federica; ma forse era proprio Livia la più sfortunata, l’ultima, quella che aveva i problemi più grandi. Essere belli è una congiura, un’aspettativa impossibile da tradire, e al tempo stesso è tutto quello che le persone vedono e di cui si fidano.

Avere successo è diverso; avere successo da adulti, poi, è ancora un’altra cosa. E Ciabatti lo descrive, e lo racconta, perfettamente. Di nuovo, finzione e realtà si uniscono, s’abbracciano, si cercano. Non c’è una divisione netta, precisa, tra giusto e sbagliato. Come nella vita, esiste – e resiste, poi – una confusione ordinata, una confusione chiarificatrice: siamo cattivi e siamo buoni, siamo orribili e siamo, a modo nostro, stupendi. Siamo capaci di fare del bene e, soprattutto, siamo capaci di fare del male. E nell’errore, nella nostra imperfezione incorreggibile, menzognera tanto quanto la bellezza, siamo noi stessi. E gli scrittori – Ciabatti e la protagonista del libro – trovano il massimo dell’ispirazione, il massimo della spinta creativa. In “Sembrava bellezza”, c’è il peso dei corpi, del sesso, c’è l’eccitazione dell’adolescenza e la consapevolezza, sempre eccitata, dell’età adulta. E c’è pure il significato profondo, perché genuino, dell’essere genitori: tifare per l’altro, tifare con tutto sé stessi; tifare senza volere niente in cambio, gratuitamente, religiosamente.

 

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