Il gigante tecnologico californiano ha minacciato di interrompere il suo servizio di ricerca, vitale per tantissime società, se il parlamento australiano approva una nuova legge per costringere Big Tech a pagare i contenuti che mostra. Il resto del mondo guarda molto attentamente
La tenzone tra Google e il governo australiano ha portata storica – e globale. A Canberra il Parlamento ha studiato un nuovo sistema che costringa le compagnie tecnologiche a pagare i gruppi editoriali per il contenuto che viaggia sulle loro piattaforme. Il rapporto finale del Senato australiano, uscito oggi, conferma quanto detto finora: occorre una legge che sistemi lo “squilibrio fondamentale” tra Big Tech e le società di media.
Il meccanismo obbligherebbe le compagnie tech a stipulare accordi con ogni gruppo editoriale, o far decidere a un commissario/giudice in caso di fallimento, per la gioia dei media locali. L’editoria globale soffre da decenni a causa della digitalizzazione e degli scarsi proventi pubblicitari, diminuiti del 75% negli ultimi 15 anni secondo la BBC. Per il Reuters Institute, l’australiana News Corporation (la creatura del magnate dei media Rupert Murdoch) ha dovuto interrompere la stampa di 60 riviste nel 2020, complice la pandemia, e analisti nel Regno Unito avvertono che un terzo dei giornalisti britannici potrebbe perdere il lavoro.
Big Tech, però, non ci sta. Mel Silva, CEO di Google Australia, ha definito il meccanismo “irrealizzabile” e iniquo per la società che indirizza “miliardi di click gratuiti” verso le testate locali. A gennaio ha lanciato un ultimatum, minacciando di chiudere Google Search – linfa vitale di moltissime compagnie e spina dorsale di servizi come Gmail, Maps e YouTube – se il disegno di legge venisse approvato. Anche Facebook ha minacciato di rimuovere le notizie provenienti dall’Australia dalla sua piattaforma.
Il premier australiano Scott Morrison ha liquidato gli ultimatum con un “non rispondiamo alle minacce”. Entrambe le parti sanno benissimo che il caso sta già diventando un importante precedente, perchè entità come il Canada e l’Unione europea (mercati immensamente più grandi) hanno in cantiere provvedimenti simili.
Va detto che l’Australia è un mercato relativamente piccolo (“solo” 3,7 miliardi di dollari americani) per Alphabet, la parent company di Google, che ad oggi vale $1,4 trilioni. Big G, che detiene tra il 90 e il 95% della quota di mercato australiana nei motori di ricerca ed è leader anche nel settore pubblicitario, potrebbe benissimo ridirezionare il traffico australiano verso i suoi server americani, il che danneggerebbe i risultati localizzati ma garantirebbe una certa continuità di servizio. Non è nemmeno chiaro quanto il blocco di Search impatterebbe gli altri servizi Google.
Ma il vero problema – specie al netto di un peggioramento di Search – è che così facendo Google spianerebbe la strada ai suoi competitor come Bing, Yahoo o DuckDuckGo, dando loro uno spazio e una visibilità inediti. Senza contare l’immenso danno d’immagine che andrebbe a rinforzare l’idea che le compagnie tech abbiano troppo potere e troppe poche responsabilità.
Perciò Google si è dedicata a una campagna mediatica nel continente australe per evitare, o almeno mitigare, gli effetti di questa battaglia. Di recente ha cercato di giocare d’anticipo lanciando Google News Showcase, un servizio di “edicola” in cui rilanciare i contenuti mediatici a fronte di un accordo commerciale con i gruppi editoriali – tattica già usata in Brasile, Germania, e da oggi Regno Unito. Finora, solo 7 gruppi australiani hanno aderito.
Lo scorso 4 febbraio la CEO di Google Australia aveva parlato con il premier, un incontro definito “costruttivo” da fonti governative. Era disposta a scendere a patti e pagare gli editori a fronte di modifiche al meccanismo. Oggi, però, le sue speranze si sono infrante. La recente decisione del Senato suggerisce che Google dovrà trattare col governo, come accaduto in Francia poche settimane fa, anche se le condizioni poste da Canberra sono ben più dure.