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Perché anche Mario Draghi non potrà fare a meno dei social network

L’auspicio è che Mario Draghi usi e usi al meglio delle sue potenzialità la comunicazione pubblica digitale. Servirà a spiegare le decisioni irrevocabili che saranno assunte e a comprendere, nel senso etimologico di includere, i sentimenti dell’opinione pubblica

Molti commentatori hanno accolto con vibrante soddisfazione l’assenza del premier Draghi dai social media e la volontà di comunicare “solo se c’è qualcosa da dire”. La cosa divertente è che i più hanno espresso questa soddisfazione sui propri profili social, in un corto circuito autoreferenziale totalmente involontario. Ma non voglio farmi distrarre dalla pagliuzza, piuttosto mi interessa discutere della trave.

Cosa vuol dire comunicare per un presidente del Consiglio? Parto da una considerazione, la comunicazione è politica, comunicare è un atto politico, significa decidere di “rendere comune” un’idea, una visione, una decisione. Non vuol dire solo informare, significa anche rendere partecipe l’opinione pubblica di quello che sta accadendo, del perché si sceglie una determinata policy o del perché se ne sceglie un’altra. Non è un passaggio irrilevante. Anche quando l’unica forma di comunicazione di massa, quella one-to-many degli old media – tv, radio, giornali – era verticale e unidirezionale, l’opinione pubblica non era solo un soggetto ricevente del messaggio pubblico. Da quando la rivoluzione digitale ci ha catapultati nell’era della comunicazione many-to-many, dove siamo tutti nodi di una rete, soggetti emittenti e riceventi di messaggi, è evidente che il ruolo e il peso dell’opinione pubblica sono cresciuti enormemente nelle decisioni che la politica deve prendere.

I limiti e i temi posti da questo cambiamento sono stati purtroppo semplificati e polarizzati nel grande alibi delle élite che accusano i social media di essere stati i vettori del cosiddetto populismo. Un errore che impedisce ancora oggi di comprendere appieno cosa sia successo nelle società occidentali, accompagnato dall’illusione che la questione sia stata completamente risolta con la sconfitta di Trump.

Se i social network sono stati rivoluzionari per la comunicazione pubblica, per la costruzione del consenso politico e anche per il futuro e la sopravvivenza dell’informazione, è davvero illusorio pensare che ci sarà un Congresso di Vienna in grado di portare le lancette indietro. In questi anni l’opinione pubblica ha conquistato un nuovo ruolo politico, che trova espressione ogni giorno, non soltanto quando gli elettori sono chiamati a esprimere un voto alle urne. Certo ci sono questioni enormi, che riguardano le regole del gioco, l’asimmetria di uno spazio pubblico che è in realtà uno spazio privato, il possesso dei dati raccolti e catalogati di ciascuno di noi, ma indietro non si può e non si deve tornare.

Dovremmo piuttosto impegnarci a immaginare e discutere delle nuove forme di comunicazione e della responsabilità pubblica nell’esercizio di questo potere. Di come dopo anni di disintermediazione, siano necessari strumenti di re-intermediazione che rafforzino il patto sociale tra chi è chiamato a svolgere ruoli pubblici e chi è governato, tra corpi intermedi e cittadini.

Anche per questo, l’auspicio è che Mario Draghi usi e usi al meglio delle sue potenzialità la comunicazione pubblica digitale. Servirà a spiegare le decisioni irrevocabili che saranno assunte e a comprendere, nel senso etimologico di includere, i sentimenti dell’opinione pubblica.

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